Rickie Lee Jones, tre date in Italia grazie a D’Alessandro e Galli. I Brani di Kicks sul palco
L’ultima volta che Rickie Lee Jones si è esibita in Italia era il 2007. Aspettavamo da tempo il suo ritorno nella penisola. Ci hanno pensato D’Alessandro e Galli, in occasione della recente uscita di Kicks, il nuovo album di cover realizzato dalla musicista americana, dove rilegge alcuni classici degli anni cinquanta e altri dei settanta, con un gruppo di musicisti presi dal cuore pulsante di New Orleans, sua nuova casa stanziale.
La grande autrice statunitense, a quarant’anni e mezzo dall’uscita del suo primo omonimo album, sarà in Italia per le seguenti date
- 13 novembre Teatro del Giglio – Lucca
- 15 novembre Fabrique Milano – Milano
- 16 novembre Sala Sinopoli – Roma
I biglietti sono in vendita da giovedì scorso sul circuito Ticketone, oppure dal sito ufficiale della D’Alessandro e Galli: www.dalessandroegalli.com
Kicks, il quinto lavoro di cover di Rickie Lee Jones
Kicks è il quinto lavoro di cover realizzato da Rickie Lee Jones. Il primo, pubblicato a inizio carriera dopo due album da studio, è il bellissimo “Girl at Her Volcano“, mentre l’ultimo prima di questo risale al 2012 ed è “The Devil You Know“, prodotto da Ben Harper. La musicista nata a Chicago e cresciuta con il paesaggio dell’Arizona a far da sfondo ai primi tentativi con la musica, ha sempre riservato un ruolo fondamentale alla rielaborazione dei brani che hanno formato la sua scrittura, tanto da inserire lungo una nutrita discografia, omaggi diretti e indiretti ai musicisti e agli standard che ha amato. Blues, pop, Jazz, doo-wop, soul, folk sono le carte che la Jones ha manipolato con grande abilità, giocando una partita scoperta grazie alle sue grandi capacità performative, decisamente oltre i confini e le possibilità del pop convenzionale.
Rickie Lee Jones, da Los Angeles a New Orleans
Affascinata e influenzata dalla cultura beatnick, sin dagli esordi ne assimila riferimenti e anche alcune posture, proprio quando la scena musicale losangelina degli anni settanta ne riscriveva i parametri attraverso gli show e le performance su palchi come quello del Troubadour. Qualcosa di più di quell’aura maledetta condivisa in quegli anni insieme a Tom Waits, perché profondamente vissuta, al di là di un consapevole filtro culturale. Quell’iconografia è lontana e dal 1979 ad oggi, Rickie Lee Jones ha rivisto le radici poetiche e letterarie del suo percorso, pur mantenendo un metodo coerente in termini di scrittura e approccio.
Trasferitasi a New Orleans in forma stanziale e in tempi relativamente recenti dopo averla frequentata per decenni, ha assimilato definitivamente lo spirito della città, accogliendone l’influenza diretta sulla sua stessa musica.
“The Other Side of desire“, il suo ultimo album di inediti pubblicato nel 2015 è il primo capitolo di questa nuova avventura. Finalmente fuori da una Los Angeles che non ha più niente del mito e ormai “invivibile”, Rickie Lee si avvicina ad una città che definisce come “Eccentrica”
“Come in tutte le isole – scriverà sul suo blog – le persone vivono giorno per giorno senza pianificare troppo le loro vite, affrontando le cose con quello di cui dispongono. Ho visto una città di persone che non cercano di evitare la pesantezza delle cose. E ho anche guardato negli occhi dei bambini, vedendo me stessa. Disperati e alla ricerca di una vita migliore bussavano alla mia porta chiedendomi se potevano pulirmi il cortile o buttarmi via la spazzatura […] la città ha condiviso tutto con me. La sua pace, le sue persone, la sua musica”
Kicks, la nuova raccolta di cover di Rickie Lee Jones: lo spirito di New Orleans
Kicks non è lontano da quel ponte tra musica e gesto d’amore di cui scrivevo nella recensione per “The Other Side of Desire“, proprio perché esce dalla “maniera” dell’omaggio, recuperando l’arte dello standard come una tavolozza possibile da riempire con le proprie contaminazioni.
Registrato a marzo, vicino ai giorni del Mardi Gras cittadino, coinvolge un gruppo di musicisti locali che le hanno consentito di radicarsi nei suoni e nella cultura della città per esplorare nuovamente l’artigianato più puro della canzone popolare.
In questo senso mantiene un contatto ancora vivo con la migliore estetica pop, quella che riesce a bilanciare le esigenze autoriali con la ricerca della forma; quasi per rivendicare il suo sentirsi diversa dall’elitarismo cantautorale della generazione precedente, quella di artisti come Joni Mitchell, Laura Nyro, Jackson Browne.
Consapevolezza che le ha consentito durante quaranta anni di carriera di sperimentare, forzare i limiti formali, così da uscire velocemente dal conforto offertole da un successo istantaneo ed esplosivo.
“Rickie Lee Jones“, il suo primo album, esce nella primavera del 1979 e ottiene subito un Grammy come miglior esordio, si piazza al terzo posto nella classifica Billboard dei migliori 200 album e al decimo per quanto riguarda la top 100 dei singoli, con “Chuck E.’s in Love“, il brano tra finzione e realtà, frutto dell’amicizia e degli anni condivisi al Tropicana Motel con Chuck E. Weiss e l’allora amante della musicista americana, Tom Waits; un triangolo che oltre al “romanzo”, conduce Rickie Lee verso conseguenze autodistruttive.
Sul solco del primo album, tra numerose dipendenze e sofferenza, il successo si ripeterà con il successivo “Pirates” e in altre occasioni, ma non sarà mai costante, per il coraggio e l’ostinazione ad elaborare nuove forme intorno all’arte della scrittura, attraverso 20 album.
La fuga e il viaggio sono le uniche costanti per Rickie Lee, sia in termini pratici che letterari, lasciarsi dietro un paesaggio per trovarne uno nuovo in cui radicare la flagranza di una poesia sempre in contatto con ambienti, persone, cose.
Nelle session di registrazione di “Kicks” viene coinvolto alla chitarra e alla slide Shane Theriot, proprio nel momento in cui il chitarrista che ha lavorato a lungo con i Neville Brothers stava producendo quello che sarà probabilmente l’ultimo album del grande Dr. John, morto all’inizio di giugno. A produrre insieme a Rickie Lee Jones, Mike Dillon, che nel disco suona percussioni e vibrafono.
Gli altri sono tutti musicisti dell’area locale, dal sassofono tenore di Ian Bowman sino al violino di Louis Michot.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ffbd14″ class=”” size=””]”New Orleans è la città il cui battito cardiaco è la musica – dice Rickie Lee nelle note allegate all’album – Un cuore che la fa vivere il giorno e la notte, dal salotto della nonna alla taverna dei nipoti. Scarpe da tip tap e tromboni camminano ancora lungo Decatur Avenue“.[/perfectpullquote]
Nel definire “famigliare” la musica contenuta in Kicks, Rickie Lee si riferisce ad una scintilla di gioia e buon umore, una vera e propria trasformazione dello spirito che dalla strada, fiorisce nel cuore.
Rickie Lee Jones, il videoclip di Lonely People
Due i singoli e i relativi videoclip veicolati per promuovere l’album. Il primo in ordine di pubblicazione è “Lonely People“, diretto dalla stessa Rickie Lee Jones: “Riflette l’umore e la forza di una cantante che nel 1979 è entrata nel luna park dell’intrattenimento attraversando la porta della superstar, per poi uscirne 40 anni più tardi con una visione meno seria di Rickie Lee”
Nella clip, due giovani ragazze che tengono in mano alcuni cartelli come Dylan nel “Don’t Look Back” di Pennebacker. L’invito è quello di abbracciare le incarnazioni del passato. Quando da destra e da sinistra, le giovani che indossano due degli outfit iconici di Rickie Lee che hanno scritto anche la storia della moda, le fanno spazio, questa comincerà a giocare davanti ad un green screen con la propria iconografia e i videoclip realizzati durante la carriera.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ffbd14″ class=”” size=””]”Bisogna fare pace con le proprie incarnazioni – dice Rickie Lee – senza vergognarsi di cosa eri, celebrare quello che si è adesso. Questa sono io, adesso. Questo è Kicks. Un sorriso sovversivo, in un momento in cui la rabbia sembra il mantra delle masse“.[/perfectpullquote]
Per chi si sia chiesto il senso dell’operazione e la scelta di un brano come quello degli America, rielaborato con un metissage tra R&B, armonizzazioni gospel e alcune sperimentazioni timbriche a contaminare l’allure Americana, il testo dell’originale arriva dal 1974 per raccontarci l’approccio odierno di Rickie Lee, grazie alle possibilità di un’arte combinatoria
“Don’t give up until you drink from the silver cup”
Rickie Lee Jones – Lonely People official video Dir: Rickie Lee Jones
Rickie Lee Jones, la sua carriera attraverso i videoclip
Quattro mesi dopo il debutto, Rickie Lee Jones è sulla copertina di Rolling Stone; sarà la prima di una lunga serie di scatti per la rivista americana e il segno di una relazione proficua, spesso spregiudicata, con l’immagine. Non è un caso che l’appellativo di “Duchess of Coolsville” arrivi proprio da Time Magazine dopo l’esibizione di “Chuck E’s In Love” al Saturday Night Live. Per promuovere l’album viene scelta la via del promo video, due anni prima del lancio ufficiale di MTV. “Coolsville trilogy” include “Coolsville”, “Young Blood”, e “Chuck E’s in Love”, per una durata complessiva di quasi 13 minuti. La struttura è quella dei primi Jazz films degli anni ’30 tra performance e storia minimale e a dirigerlo è Ethan Russell, fotografo di talento attivo dagli anni sessanta, che proprio tra il 1978 e il 1979 decide di sperimentare in modo pionieristico con i video musicali. Dopo aver realizzato gli artwork per The Rolling Stones, Beatles e Who, Russell contribuisce alla creazione di un’icona tra finzione e realtà, descrivendo un’elegia notturna che attinge in parte dagli interessi poetico letterari della Jones, alternando la performance dei musicisti alle immagini di una Los Angeles notturna. Tutti gli stereotipi dell’icona beatnick, sigaretta e berretto inclusi, espandono il dialogo tra l’artwork dell’album e i promo video diffusi durante la promozione del 1979, ma allo stesso tempo riassumono la vita selvaggia e lo spirito libero della Jones, sin dal primo apprendistato, quando nel 1975 viveva nel vecchio quartiere beatnick di Venice, facendo la cameriera e suonando al Suzanne’s.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ffbd14″ class=”” size=””]Al centro del video, la città come organismo pulsante, ricco di possibilità, ma anche di cicatrici, così come emerge dalle liriche:[/perfectpullquote]
City will make you mean
But that’s the make-up on your face
Love will wash you clean in the night’s disgrace
Rickie Lee accentra lo sguardo e indirizza la macchina da presa, anche quando esce dal set per mostrarcelo. Quell’indomita energia erotica che Chuck E Weiss sperimenta quando per la prima volta nel 1977 la vede esibirsi al Troubadour, si attiva nuovamente nelle sue smorfie da bambina dispettosa, nell’indolente sfrontatezza davanti al microfono, nel suo deambulare senza soluzione di continuità tra la scena e la città.
Rickie Lee Jones – Coolsville Trilogy – Dir: Ethan Russell
I Quattro mesi parigini di Rickie Lee a partire dall’aprile del 1984, sono un po’ come la permanenza berlinese per Bowie, un’occasione per rimettere insieme i pezzi e lasciarsi alle spalle una serie di dipendenze. Nella città francese realizzerà “The Magazine“, portando a conclusione alcuni brani abbozzati l’anno precedente insieme a nuovo materiale. Registrato insieme alla sezione ritmica dei Toto, Jeff Porcaro e David Hungate, “The Magazine” è in realtà un disco aspro e malinconico, condotto da Rickie Lee con la consueta curiosità per gli innesti sonori e l’ironia nel costruire storie tra stupore e tragedia. La città è ancora l’organismo che genera meraviglia e orrore, tra incontri comuni e straordinari per le strade di Manhattan, si fa strada un sentimento di alienazione, dove la contemplazione di chi vive ai margini della società, diventa un motivo ricorrente. L’unico singolo promozionale per un album che non avrà il successo dei precedenti, è la splendida “The Real End“; il video viene affidato ad un maestro della nuova immagine elettronica, Zbigniew Rybczyński.
Ci sembra straordinario che una performer come la Jones si sia affidata proprio ad un innovatore come il videasta polacco, che aveva già sperimentato una serie di soluzioni per ri-collocare la centralità dei musicisti all’interno di uno spazio caotico, tra apparizioni, innesti incongrui e soprattutto, la moltiplicazione dei corpi.
Il testo di Rickie Lee gli tende una mano, per il modo in cui fa a pezzi gli stereotipi relazionali e il ruolo delle donne entro la cornice di quelle convenzioni. Nel video la Jones cammina per una strada Newyorchese come se si trattasse di un lungo e infinito carrello, espansione infinita dello spazio in una curva temporale più ampia, come accadrà nei futuri lavori di Zbig. Un esercito di uomini disposti in fila la attende, mentre Rickie Lee può cambiare le sue preferenze grazie all’interfaccia che delimita i confini dello schermo, modellata sulle prime workstation CG, come quelle diffuse dalla Quantel (Paintbox, Harry e via dicendo). C’è già una consapevolezza sorprendente rispetto alle qualità performative del nuovo mezzo e alle potenzialità di ricombinare una narrazione fatta di pezzi, campioni, ripetizioni, stereotipi.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ffbd14″ class=”” size=””]Rickie Lee è straordinaria nel gestire questa proliferazione ripetitiva e si muove con la consueta libertà anarchica anche sul set più concettuale.[/perfectpullquote]
Rickie Lee Jones- The Real End – Dir: Zbigniew Rybczyński
So you keep talking in many languages
Telling us the way you feel
Don’t stop confiding in the road you’re on
Don’t quit, you’re walking Satellites
(Rickie Lee Jones – Satellites)
Tra l’ancoraggio alla parola per comunicare i sentimenti, la concretezza della strada, ma anche la sua evanescenza, Rickie Lee dimostra ancora una volta il suo magistero poetico nello spazio di una strofa. Coalescenza e trasparenza dei significati, il fondersi di una parola nell’altra, così da aprirsi alla molteplicità.
Forse doveva esser questa la chiave del video che fu scelto per promuovere Flying Cowboys, album scritto un po’ di tempo prima con il marito Pascal Nabet Meyer, e frutto di un lungo periodo di pausa. Prodotto da Walter Becker degli Steely Dan, sfiora quel piccolo miracolo tra jazz e pop, rendendone i confini invisibili.
Il video di “Satellites” fu affidato nuovamente ad Ethan Russell, fotografo con il quale aveva collaborato per alcuni artwork e regista di “Coolsville Trilogy”. Della riduzione ad una fantasia dell’infanzia la Jones non si rivelò affatto soddisfatta, esternando un sarcasmo vicino a quello di Joe Jackson rispetto alla media dei video musicali: “L’estetica del video rende difficile capire che cosa sta accadendo e il regista affidò il montaggio ad un montatore qualsiasi senza dirgli cosa fare, cosa tagliare, come procedere. Ero davvero delusa, ma ho imparato che i registi fanno il loro film e tu, l’artista, sei un ospite. L’idea che un artista faccia un videoclip è davvero ridicola, a meno che non sia lui a dirigerlo. E’ stata una buona lezione”
Rickie Lee Jones – Satellites – Dir: Ethan Russell
“When I was young, oh, I was a wild, wild one”
(Rickie Lee Jones, Flying Cowboys)
La splendida Flying Cowboys è il secondo video tratto dall’omonimo album della Jones pubblicato nel 1989. Il brano ha un significato importante per Rickie Lee e risente del paesaggio empirico vissuto durante quegli anni, quando lei e Pascal si spostano a Ojai, in California. Il brano sembra emanato da una visione nel deserto, tra perdita e redenzione, senza che tra le due polarità ci sia conciliazione, se non in quella splendida immagine di una gioventù selvaggia che probabilmente accoglie tutti gli opposti. A dirigere il video è Neil Abramson, con il quale l’artista americana collaborerà nuovamente nel ’91 per la cover hendrixiana di “Up from the skies”, singolo tratto dal suo secondo album di cover intitolato “Pop pop”. Sul video di “Flying Cowboys” non siamo riusciti a trovare note di regia soddisfacenti. Più preciso e lineare del precedente nel descrivere la forza evocativa dei testi, immerge una radiosa Rickie Lee nella continua e infinita fatamorgana del deserto, per far emergere un immaginario di frontiera e tutto quel paesaggio, esterno e interiore, legato alla sua formazione personale ed artistica. Un anno prima era nata Charlotte Rose, la figlia di Rickie Lee.
Rickie Lee Jones – Flying Cowboys – Dir: Neil Abramson
“Pop Pop” è il secondo album di Cover pubblicato da Rickie Lee Jones. Prodotto da David Was dei Was (Not Was), contiene una selezione abbastanza omogenea di standard blues e Jazz, che vengono piegati più dalla parte del secondo. Grazie a musicisti del calibro di Robben Ford, Joe Henderson e Charlie Haden, la Jones punta alla riscrittura attraverso arrangiamenti in netto contrasto con gli originali. Il caso più evidente è proprio la rilettura della cover hendrixiana, deprivata della sua urgenza e trasposta tra gli anni trenta e le influenze Manouches. Il video cerca di catturarne lo spirito, giocando con l’illusionismo del cinema delle origini e una serie di visioni che sembrano desunte dal video precedente realizzato per la Jones. La camera è in moto perpetuo e nel suo ondeggiare segue il movimento instabile di Rickie Lee tra i performer, una costante, sin da “Coolsville”
Rickie Lee Jones – Up from the skies Dir: Neil Abramson
Nel 2007 Rickie Lee pubblica un album per l’etichetta indipendente di Nashville New West. The Sermon on Exposition Boulevard è una rilettura del volume di Lee Cantelon “The Words: Jesus of Nazareth”, scritto tra gli anni ottanta e i novanta come opera di divulgazione degli insegnamenti di Cristo, destinata ad un pubblico di agnostici, indifferenti, delusi, nel tentativo di avvicinarli con un linguaggio accessibile. La Jones, cresciuta in una famiglia cattolica, ma del tutto libera nelle sue scelte religiose, lavora sull’essenza della parola e si fa produrre dallo stesso Cantelon, ampliando le sue richieste, tra l’altro rivolte a numerosi artisti e lasciandosi prendere dal fuoco dell’improvvisazione. Per promuovere l’album viene prodotto il video di “Falling up“, diretto dal grafico e animatore losangelino Jonathon Stearns e la sua Channel B4 Media, combinando alcune riprese in studio con animazione 2D e 3D
Rickie Lee Jones – Falling up – Dir: Jonathon Stearns
Mentre per “The other side of desire“, il suo ritorno ad un vero e proprio album di inediti, ricorre solamente a due teaser per promuoverlo personalmente, per il nuovissimo “Kicks” si affida nuovamente ai video musicali. Il primo, di cui abbiamo già parlato, se lo dirige da sola, assecondando un desiderio già espresso quando fu prodotta la clip di “Satellites”.
Il più recente è dedicato alla cover degli Ipana Troubadours di Sam Lanin, intitolata Nagasaki e incisa su laminato Columbia nel 1929.
La versione della Jones vira dalle parti degli ensemble femminili tra gli anni trenta e i quaranta, moltiplicando la voce, spingendo sul boppin’ e inserendo tra gli arrangiamenti una sezione fiati e un oboe che sembra un clacson.
Il video è introdotto in puro stile Studio Ghibli da un logo che sostituisce il Chibi-Totoro (piccolo Totoro) sopra l’ Ō-Totoro (il Grande Totoro), con Kim Jong-un che cavalca un mostruoso e gigantesco Donald Trump.
A realizzarlo, il talentuoso Ben Clarkson, animatore di talento che sul piano dei videoclip aveva già collaborato con Califone, Showtek and GC e altri artisti statunitensi. Ispirato all’essenzialità delle animazioni 2D e ad una storia dell’illustrazione che dal Giappone va verso la Russia sovietica, interagisce con il rompicapo canoro recuperato dalla Jones, elaborando una fantasia politica esilarante, dove Rickie Lee affronta direttamente Trump durante la sua trasformazione in un simil-Godzilla, mutando il suo aspetto in quello di un mecha robot muliebre, che riprende le fattezze della supereroina inventata dall’artista femminista Peregrine Honig per l’artwork di “Kicks”.
Rickie Lee Jones – Nagasaki – Dir: Ben Clarkson
Questa riuscitissima combinazione tra immagine, testo e riscrittura, ci racconta una volta di più le enormi possibilità narrative e combinatorie che alimentano i progetti di Rickie Lee Jones. Le canzoni recuperate, trasformate e ri-viste attraverso una prospettiva inedita, indicano un nuovo percorso, oppure dischiudono quel significato rimasto sopito per decenni dentro al nostro cuore.
Non vediamo l’ora di vederla dal vivo il prossimo novembre.