Era assente dai palchi italiani dal lontano 2007, ovvero dai tempi di “The Sermon on Exposition Boulevard“. Da quella rilettura dell’opera di divulgazione religiosa scritta da Lee Cantelon, Rickie Lee Jones non si è mai fermata e ha continuato la sua personalissima esplorazione della cultura statunitense, tra contaminazioni e un’infedele fedeltà agli standard. Per le tre date italiane organizzate dalla D’Alessandro e Galli, la “Duchess of Coolsville” ha portato sul palco i suoni del lavoro più recente, “Kicks“, quinto tra i suoi album di cover, che vanno considerati sincronicamente rispetto alla discografia di inediti, per invenzione ed eresia.
E si sente ancora eretica, soprattutto in relazione al suo rapporto con la celebrità. Sul palco del seicentesco Teatro del Giglio, ricorda l’unico riconoscimento ricevuto nel corso della sua carriera, un premio ottenuto proprio in Italia, consegnatole da Enzo Gentile all’inizio del nuovo millennio, in occasione del 25/mo Premio Tenco. Già allora la motivazione era legata alla sua narrazione dell’America, vista attraverso il “lato scomodo e inquieto“; sul palco Rickie Lee indugia sulla parola celebrità e con il suo straordinario parlato indolente mormora “Celebrity. The Dark Side of Celebrity“.
L’ingresso sul palco è introdotto dal percussionista e vibrafonista Mike Dillon, che collabora con Rickie Lee dal 2016 e che ha prodotto l’ultimo album dell’artista americana. Dillon, attivo a New Orleans come gli altri membri della band, sembra coronare perfettamente il percorso sonoro della musicista, sospeso tra musica popolare e quelle incursioni Jazz che le hanno consentito di collaborare con artisti del calibro di Joe Henderson, Ornette Coleman, ma anche con un talento “sul bordo” come Mike Watt.
La città della Louisiana, ormai luogo stanziale di vita, sembra estendersi per tutta la performance, attraversata da un approccio informale e per certi versi improvvisativo, la cui energia è definitivamente tenuta in pugno dalla Jones, ancora capace di giocare con la deriva dei brani, entro un guscio di grande sapienza narrativa.
Sorprende ancora la sua relazione con la parola. Tra l’indolenza di una crooner navigata mentre parla sferzando il pubblico con una serie di divertenti motti di spirito e l’incredibile modulazione della voce quando attacca un brano, si crea uno spazio confidenziale che ci consente di sfiorare quei suoni così caldi e avvolgenti.
Vestita rigorosamente di nero, con delle splendide scarpe color oro, si muove tra chitarra e piano per tutto lo show, stabilendo un dialogo elettivo con il drumming di Mike Dillon, capace di insinuarsi nelle complesse trame vocali della Jones, con uno stile eclettico che passa in rassegna ritmi africani, recupera le influenze cubane che hanno attraversato New Orleans, giocando con il second-line locale.
Cliff Hines alle chitarre e al mandolino elettrico e Robbie Mangano al basso, più alcune tastiere, seguono in modo preciso la costruzione di un suono davvero notevole che trova il suo centro di traino nel dialogo costante tra il piano di Rickie Lee e il drumming di Mike.
“Weasel And The White Boys Cool“, il brano scritto insieme ad Alfred Johnson, tratto dal primo album del 1979 e dedicato a Sal Bernardi, è l’attacco del concerto. Un breve primo omaggio al folgorante debutto pubblicato dalla Warner che include “Young Blood” e il classico “Chuck E’s in Love“, una delle numerose escursioni di Rickie Lee tra finzione e realtà diventato nel tempo un marchio di fabbrica per descrivere al meglio le capacità dell’artista americana nel dilatare il narrato di un brano.
“You’re Nobody till Somebody Loves You“, la popolare canzone scritta da Russ Morgan, Larry Stock e James Cavanaugh è la prima incursione nelle atmosfere di “Kicks“. Se tra le numerose versioni, la memoria favorisce quella interpretata da Dean Martin nel 1960, tra esplosioni orchestrali e l’estetica del crooner mascalzone ai massimi livelli, la Jones la trasforma nel suo opposto, declinando quella stessa capacità di dominare l’ascoltatore con il suo personale teatro, più confidenziale, diretto, senza la necessità di colpire in basso e generando quello spleen malinconico totalmente assente nella versione di Martin.
Non saranno molti i brani di “Kicks”, limitati ad altri due episodi ( “Cry” e “Bad Company“) mentre proporrà alcune sorprese, tra cui la misconosciuta “Scary Chinese Movie” tratta da quell’esperimento incompreso che era “Ghostyhead”. La traccia viene deprivata dalle asperità più atonali e si sposa perfettamente con una setlist che mantiene, coerentemente, la magica allure sonora impostata dall’intro di Mike Dillon.
“The Magazine“, album del 1984, viene celebrato con due tracce, ma c’è spazio anche per “Pirates” e per “The Other Side of desire“, il penultimo album della Jones e l’ultimo di inediti a tutt’oggi, quello più vicino allo spirito di New Orleans insieme a “Kicks”.
Alla fine l’album più battuto risulta proprio il primo, quello ancora vicino alla sbornia beatnick, quando viveva nel quartiere di Venice e faceva la cameriera suonando al Suzanne’s.
A distanza di quarant’anni, Rickie Lee gioca ancora con quei brani, quasi fossero desideri lontani, ma ancora vivissimi per la spontaneità e la forza con cui riesce ad interpretarli.
A un certo punto si alza, si avvicina a Mangano e Hines e chiede di rallentare il ritmo durante l’esecuzione di “Ghost Train“, il desert blues tratto dallo splendido “Flying Cowboys“, dirigendo i due musicisti e impostando il mood. Lo fa come se fosse al centro di una Jam Session, consentendoci di entrare in una dimensione d’ascolto rarissima e diretta, mentre accentra lo sguardo e indirizza noi e i musicisti verso il suo ritmo interiore, come accadeva nello storico video di “Coolsville trilogy”, dove vagava tra lo spazio della città a quello del palco, senza soluzione di continuità.
Dentro lo splendido e quasi irreale guscio urbano di Lucca, si vive allora una piccola, grande magia, vicini a quell’energia erotica e spirituale che Chuck E Weiss scorse per la prima volta nel 1977, quando Rickie Lee si esibiva al Troubadour.
La sfrontata indolenza c’è ancora, ma è molto più dolce e materna.