martedì, Dicembre 24, 2024

Roger Waters – Us+Them “outdoor” – Grande successo al Lucca Summer Festival

Una figura seduta in riva al mare e inquadrata di spalle, occupa le straordinarie dimensioni degli schermi a led che in forma panoramica si estendono lungo l’enorme palco allestito per la versione “outdoor” di “Us+them“, il visionario tour di Roger Waters che ha proposto questo setting “in esterni” per alcune rarissime occasioni, tra cui il recente concerto a Hyde Park, oltre a quelli ormai leggendari a Città Del Messico e al Desert Trip Festival.
Le immagini introduttive, accompagnate dai paesaggi sonori e dai gabbiani di “Speak to Me“, sono quelle filmate da Sean Evans insieme allo stesso Waters, per il video di The Last Refugee, dove una giovane donna vive in povertà, lontana dalla sua terra e con una figlia perduta alle spalle, forse traccia mnestica della sua stessa infanzia. Questo percorso visivo sarà smembrato e articolato durante tutta la narrazione dello show, come sottotesto che lega i numerosi percorsi sensoriali alimentati da “Us+them”.

Le mura storiche di Lucca circondano la complessa architettura visuale ideata dalla TAIT Towers, in quella che si rivelerà anche come un’avventura dell’occhio, oltre al viaggio tra passato e futuro nella lunga carriera del musicista britannico.

“Us+them” è allora qualcosa in più di un evento riassuntivo, come ci è capitato di leggere in alcune analisi limitate ad una setlist dalla struttura impermeabile. Dai classici dei Pink Floyd alla carriera solista di Waters, il serbatoio di provenienza procede da “Meddle“, fino a “The Dark Side of The Moon“, “Wish you Were Here“, “The Wall” ed infine al solo album “is This the Life We Really Want?“.
Una scelta molto precisa in realtà, che si snoda attraverso alcuni dei temi pregnanti dell’ultimo dei quattro dischi solisti del nostro, reinventando quindi la narrazione dei “classici”, basta pensare all’accostamento tra “Welcome to the machine” e “Déjà Vu“, dove la riflessione sulle “macchine” del potere diventa osservazione disillusa sull’assenza di Dio e sulla sua sostituzione con i dispositivi che ci sorvegliano: If I was a drone / Patrolling foreign skies / With my electronic eyes for guidance.

Racconta una storia Waters, che è collettiva e individuale e che non si limita al piano “aurale” o della memoria storico-musicale come dicevamo, perché il bombardamento sensoriale a cui ci sottopone attraverso una “macchina” concepita per non dar tregua, mette insieme una concezione trasversale della fruizione, che oltre all’imponente setting, include anche l’amplificazione di alcune intuizioni “old school”, come l’impiego di  sistemi laser che occupano la seconda parte dello show e che disegnano uno spazio fuoriuscito, letteralmente, dalla proiezione frontale degli schermi.

Sono molte le figure, i motivi, le forme che ritornano e che cambiano di senso per analogia o accostamento, generate dall’immaginario di Waters, dagli artwork dei lavori dei Pink Floyd, da una vocazione visuale che affonda le radici in un lontano passato e che diventa consapevole delle possibilità infinite legate al linguaggio transmediale, a partire dalla storica e misconosciuta collaborazione di Roger Waters con il grande cineasta britannico Nicolas Roeg. “Quando i miei fan verranno al concerto – raccontava il musicista inglese in un’intervista concessa nell’84 a Video Jockey per MTV per la presentazione del tour di The Pros and Cons of Hitch Hiking, – non rimarranno delusi, perché potranno assistere ad una serie di effetti pari a quelli del videoclip“.

Sono passati più di 30 anni e quell’intuizione si è espansa, fino a includere sicuramente tutti gli show più recenti prodotti da Waters negli ultimi anni, inclusa la sua versione live di “The Wall”. In “Us+them”, pur nella magniloquenza del setting, c’è una dimensione maggiormente intima e ravvicinata, lo dimostrano alcuni simboli, come quello delle due mani che durante lo show e a più riprese cercano di avvicinarsi, prima sgretolandosi e in seguito mutando a poco a poco il senso di perdita e di vuoto di  “Wish you were here” nell’abbraccio finale dello stesso Waters mentre esce dal suo ruolo per stringere quelle degli spettatori disposti sulle prime file. 

Assistere allo show direttamente sotto il palco garantisce una doppia vicinanza, questa almeno è stata la mia esperienza durante la data al Lucca Summer Festival, prossimità allo spettacolo nello spettacolo, ovvero lo show musicale più diretto, e immersione nei grandi spazi virtuali ridisegnati di volta in volta dalla straodinaria tecnologia della TAIT, così spinta tra le proiezioni virtuali, il “mapping” dei laser e gli oggetti di scena “reali”. 
A star troppo vicini a questo mondo immaginale si rischia l’accecamento rispetto ad una visione d’insieme, compiuta a distanza. 
Roger Waters lo sa bene e per questo lo spettacolo non è lo stesso per tutti, ma segna un’esperienza irripetibile da qualsiasi angolazione visiva.

Rispetto ad altre date italiane che non si sono servite di una location imponente e dall’architettura storica come quella lucchese, non erano presenti gli schermi issati a metà platea, mentre le dimensioni imponenti degli schermi sono possibili solo nella versione “outdoor” e hanno offerto una dimensione panoramica a perdita d’occhio. Anche in questo senso l’intuizione della D’Alessando e Galli nello sfruttare una location che a molti sembrava “difficile”, si è rivelata straordinaria nella fusione tra spazio reale e spazio urbano.

Proprio in questo senso l’emersione della  Battersea Power Station londinese ha creato una vera a propria vertigine, innestata tra le mura storiche, una visione senza soluzione di continuità che consentiva davvero di perdersi rispetto ad uno spazio più tradizionale, dove i confini sono al contrario ben visibili. 

Si parlava di simboli e forme in costante mutazione. Le mani, lo spazio appunto, il globo, gli animali, la natura, le architetture, fino a tutti i temi politici e “letterari” cari a Roger Waters, dall’inquinamento all’ascesa del nazionalismo, passando per questioni etnico-religiose fino alle note posizioni sul conflitto israelo-palestinese.

Più delle sue posizioni, più della disillusione e allo stesso tempo dell’anelito verso la pace, antologia di un pensiero che conosciamo bene, colpisce durante lo show il passaggio narrativo da un tema all’altro, il montaggio di temi e figure, immagini e soundscapes, capaci di mutare di senso da un momento all’altro.
Quando per esempio Waters brandisce due grandi cartelli come se si trovasse al centro di una manifestazione popolare, le parole “pigs rules” e “fuck pigs” fanno parte di una sezione che senza soluzione di continuità procede da “Dogs”, dove temi molto diversi e diverse accezioni del concetto di “animale”, come accadeva nell’album dei Pink Floyd del 1973, si succedono fino alla deformazione parodica dell’iconografia politica che in tutti gli show mette al centro Donald Trump, maiale tra i maiali, inclusi quelli iconici che cominciano nel 1976 con l’oggetto sviluppato da Jeffrey Shaw grazie al contributo della Hipgnosis.

Vuoi essermi fratello, oppure grande fratello?“. La pausa di venti minuti tra una sezione e l’altra del concerto, quella che consente agli spettatori di recarsi per i centri di ristoro disseminati nell’area, non arresta il bombardamento mediale. Scritte rosse su sfondo nero vengono proiettate sugli enormi walls con un’insistenza Orwelliana, un riferimento implicito ed esplicito costante a partire da alcuni album dei Pink Floyd e che diventa suggestivo se si pensa all’inizio dell’avventura solista live di Waters intorno al 1984.  Gli statements che passano sono numerosi e ruotano intorno alla parola “RESIST”. Resistere a tutto quello che per Waters separa noi da loro, il popolo dal potere, l’abbraccio dalla divisione. Resistere quindi a Zuckerberg, al neofascismo, all’inquinamento, alla guerra, al razzismo, queste alcune delle sollecitazioni che provengono dallo schermo in una sorta di parodia della comunicazione legata ai regimi totalitari, che affonda le sue radici in tutta la produzione visiva e iconografica legata a “The Wall”.

Gli oggetti e i segni si susseguono e alcuni esondano dallo spazio delle proiezioni, come il globo che sorvola le megalopoli all’inizio del concerto e che diventa una mirrorball senza specchi, ma con la superficie completamente liscia, mentre “vola” bassa sulle teste degli spettatori, cosi che possano specchiarcisi.
Qualsiasi cosa investe gli spettatori delle prime file, dagli oggetti che sorvolano lo spazio ai fasci di luce che delimitano nuovi spazi, fino ai Roll IOS della TAIT che rigenerano la forma piramidale di “The Dark Side of the Moon” con una proiezione laser, includendo tutto il pit. 

L’immaginario dei Pink Floyd nella versione di Roger Waters è quello più politico e continuerà ad esserlo anche dopo il tour che Nick Mason allestirà a partire dal prossimo settembre, con il repertorio “early” dei primi Floyd e se la critica al capitalismo britannico degli anni settanta attraversa più di un episodio nella discografia della band, a quell’avversario si oppone qualcosa di diverso,  senza più alcun referente nella cultura socialista. L’amarezza sostituisce la Tatcher con i contorni di Donald Trump, incubo collettivo e globale a cui Waters riserva uno spazio determinante durante lo show, quasi fosse una figura mostruosa del fato, fino all’esecuzione di “Us+them”, accompagnata da immagini che passano in rassegna militanza, attivismo e i volti dei rifugiati di tutto il mondo. 

Un racconto a orologeria, ma che contiene molti percorsi intimi e personali nella forma ellittica e allo stesso tempo dissipativa del flusso di coscienza. 
La ragazza in povertà filmata sulla spiaggia, torna alla fine dell’intero show e in quel ritorno all’infanzia, perduta attraverso un procedimento che è personale e  comunitario, Waters come già raccontavo, scende dal ruolo di un predicatore d’eccezione, stringendoci la mano; non è in fiamme come una delle due figure nell’artwork di “Wish you were here”, ma la sua oratoria sviluppata attraverso dispositivi mediali complessi è tutt’altro che fredda, soprattutto quando supera i livelli di misura e moderazione. 

Grazie, sono molto felice di essere qui, e voglio dire una cosa che non c’entra ma voglio dirla in italiano – racconta al suo foltissimo pubblico recuperando un’oscura risposta offerta a Enrico Franceschini per Repubblica, durante un’intervista – guidi piano per favore, mia moglie aspetta un bambino

L’encore è affidato a “Confortably Numb”, uno dei racconti di disillusione più “scuri” tra quelli scritti da Waters, dove il rifugio nel mondo della fantasia e delle immagini assume un senso ancora pregnante dopo questo bagno ipertrofico nei suoni e nelle proiezioni, capace di restituirci il simulacro di ciò che siamo diventati. 

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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