Immaginare di poter condensare una discografia decennale, cresciuta vieppiù a cadenza annuale, che consta peraltro di due impegnativi tripli album (Die Æsthetik Der Herrschaftsfreiheit e A Passage To Rhodesia), non è cosa da niente, in special modo se tutto il cimento prodotto ha dato vita a lavori di esemplare e rara complessità. Eppure Jerome Reuter, a sugello di un tour che l’ha impegnato in giro per il mondo per tutto l’anno da poco trascorso, assembla questo compendio che, malgrado la comprensibile incompletezza, riesce alquanto a restituire le profondità di una musica che si propone di andare ben oltre il puro ascolto, essendo veicolo per quelle riflessioni antropocentriche che, nel canzoniere dell’artista lussemburghese, coincidono da sempre con lo studio dei corsi e dei ricorsi della Storia. Oggetto che lo ha impegnato in percorsi tematici che si offrono come veri e propri studi di storiografia moderna in forma di canzone, laddove non è raro imbattersi nella (ri)scoperta di eventi e fatti poco noti ai più (la Resistenza nella Spagna franchista in Flowers From Exile) o del tutto sconosciuti (la drammatica vicenda della guerra d’indipendenza della Rhodesia, l’antico Zimbabwe, in A Passage To Rhodesia).
Un approccio serio, serioso quasi, che nello specifico ha prodotto lavori di rarissima intensità drammatica che davvero poco hanno a che fare con quell’universo neofolk al quale viene solitamente ascritto e poco anche col pop propriamente detto. Perché, è vero che le prime prove di Jerome sono marchiate Cold Meat Industry ma oggi lo spettro sonoro del nostro si è di molto scostato dal solo modello Death In june, oziosamente riproposto dalle decine e decine di realtà che lo usano come tale, ambiguità inclusa (nessuno vuole dirlo mai chiaramente, lo dico io: quello di molte band appartenenti a quell’area è apologia del fascismo bella e buona). Perché è vero che la monumentalità degli arrangiamenti, le tematiche, i referenti, l’apparato estetico e visuale, la stessa altisonante ragione sociale (in realtà una crasi tra i suffissi di nome e cognome del nostro), ha da sempre adombrato anche Rome di sospetti istinti destrorsi ma è anche vero che questi sono in verità molto facilmente smentibili oltre che sempre opportunamente respinti.
L’antologia, quindi, si prende l’onere di mettere in rassegna, non cronologicamente ma attraverso un accostamento sensibile, alcuni passi dell’opera omnia di Rome, come si trattasse proprio della scaletta di un live, preferendo i brani meglio amalgamabili tra loro a quelli più noti o popolari tra i suoi fans. Nessun album è stato escluso ed è anzi l’occasione per recuperare anche un brano (The Orchards) dal primo mini CD, Berlin, e il 10” My Traitor’s Heart posto in chiusura. Un percorso oscuro, perché qualunque piega assuma di volta in volta, la sua musica rimane solenne e invariabilmente dark, battuto da voci campionate chissà da dove ed in ogni lingua possibile (anche italiano, il ché è non poco straniante). Con Cohen prima di tutto, Swans, Laibach e certo anche Douglas P. e Current 93 sempre sugli scudi ed uno stile incrollabile, tale da far apparire l’album ompatto al punto da non credere che abbracci un arco di tempo così ampio.
E’ facile immaginare che il prossimo passo di Rome rimanga strettamente vicino a tutto ciò che Anthology 2005-2015 offre in queste venti tracce, che il suo stile continui a spostarsi di brevi, impercettibili ma perpetui movimenti come ha fatto finora. Che il suo canzoniere post gotico continui a colmarsi di pensieri e parole sul dolore dell’uomo difronte alle colossali ellissi della Storia, coi suoi modi, coi suoi tempi, con le sue tenebrose cromie. Ed è giusto che sia così, perché la coerenza è cosa troppo rara per essere sacrificata.