domenica, Dicembre 22, 2024

Ropoporose – in rumorosa armonia: l’intervista

Quello che i Ropoporose continuano a fare in due è sorprendente. Ad un anno di distanza da “Elephant Love“, primo album sulla lunga distanza interamente autoprodotto e successivamente licenziato dalla francese Yotanka Records, tornano con un nuovo lavoro molto più ricco sul piano sonoro e creativo.

Pauline e Romain sono legati dalla relazione di sangue più stretta e la traducono nella loro musica senza alcuna interferenza esterna che non sia quella dei dispositivi e degli strumenti condivisi.

L’amore incondizionato per il noise statunitense tra ottanta e novanta, un drumming tribale e schizofrenico, la fedelissima loop station, le chitarre, alcuni synth e uno strumento costruito insieme al liutaio preferito da Sonic Youth e Half Japanese.

Il resto, esattamente come il gioco fonetico che costituisce il loro nome, è tutta una questione di raddoppi, strategie palindrome e stratificazioni sonore.

Kernel, Foreign Moons” si avvale della preziosa collaborazione in studio di Thomas Poli, chitarrista dei Laetitia Sheriff, mantenendo ancora la qualità del dialogo a perdifiato tra fratello e sorella, nel tentativo di rimanere agganciati ad un formato che li costringe ad un vero tour de force strumentale ed espressivo.

Lo si capisce benissimo in questa lunga conversazione con Pauline, dove la giovane musicista si riferisce più volte alla difficoltà di ricoprire tutte le possibili lacune che la formazione in duo comporterebbe e allo stesso tempo la necessità di lasciare invariata l’intensità di un dialogo esclusivo.

Un suono, quello di “Kernel, Foreign Moons” che sembra prodotto da cinque, dieci persone, tanto è ricco e orchestrato nella direzione che è stata di Sonic Youth e Glenn Branca, ma che mantiene l’immediatezza del confronto diretto e la violenza di un sentimento armonicamente selvaggio.

Dopo il febbraio del 2016, i Ropoporose saranno nuovamente in Italia per due date, il 29 di aprile al Glue di Firenze e il 30 aprile al Dalla Cira di Pesaro.

Per avvicinarci a questo piccola e miracolosa alchimia abbiamo parlato a lungo con Pauline

Ropoporose – Horses, il video ufficiale di Hugo Bernatas, tratto da “Kernel, Foreign Moons” (Yotanka, 2017)

Ropoporose. La parola ha un particolare significato?

“Ropoporose” è l’insieme dei nostri soprannomi. È stata un’idea di Romain, fondere e moltiplicare le nostre prime sillabe. Abbiamo aggiunto  “se” alla fine, perché secondo lui suonava meglio. Nessun significato particolare quindi, solo un modo stupido per inventarsi il nome di una band.

Puoi raccontarci le origini del progetto?

All’inizio non avevamo un progetto vero e proprio, ci interessava semplicemente passare del tempo insieme, suonando e improvvisando, almeno da quando è stato possibile, ovvero dopo aver ricevuto in regalo una loop station per il mio compleanno. L’idea iniziale era quella di fare una cover dei “Girls”, una band californiana, ma non ci siamo riusciti. Poi abbiamo pensato di creare dei loop come suonerie per cellulari ed infine di metter su una band. Il tutto senza alcuna pretesa. Abbiamo partecipato all’incontro dell’associazione che ha fondato il festival  Rockomotives, che ogni anno si svolge nella nostra città, a Vendôme. Il direttore artistico ci ha chiesto se volevamo far parte della line-up e se eravamo in grado di allestire un set di 30 minuti entro sei mesi. Lo abbiamo fatto. Ecco come è cominciata l’avventura dei Ropoporose.

L’idea di suonare come duo è anche un modo di rafforzare il vostro legame di sangue?

Inizialmente ci siamo concentrati sull’evoluzione delle nostre capacità, anche per consentirci di essere solamente in due sul palco, suonando allo stesso tempo come se non fosse troppo percepibile l’utilizzo della loop station. È in questo modo che abbiamo imparato a riempire i vuoti e a superare i limiti tecnici del dispositivo e di un set costituito da sole due persone. Inoltre un’idea concepita in questo modo è certamente una questione di fratellanza, per questo abbiamo deciso di tenerla in vita ed alimentarla fino  quando durerà. Se suonassimo con altre persone sarebbe qualsiasi cosa tranne che “Ropoporose”

Collaborare tra fratello e sorella è più una questione di intuito invece che un legame strettamente tecnico?

Suonare insieme è naturale e intuitivo. Ci comprendiamo senza doverci dire per forza qualcosa ed è molto piacevole. Non siamo dei fan della tecnica, cerchiamo di suonare al meglio delle nostre possibilità, per gestire e inventarci nuove idee mentre lavoriamo insieme.

Chi scrive la musica e chi i testi e come nasce una canzone dei Ropoporose?

Scriviamo entrambi la musica, mentre sono io ad occuparmi dei testi. Quando creiamo una canzone cominciamo con chitarra o batteria; non ci sono regole precise. Seguiamo le nostre idee per renderle vive, nonostante la presenza della loop station. I testi non inseguono un senso reale, sono più vicini alla descrizione vaga ed astratta dei sentimenti. Per noi la voce stessa è uno strumento e non è utilizzata per offrire un significato alle parole, al contrario ci interessa il modo in cui le parole sono pronunciate. Tutto viene applicato in seguito, la musica viene sempre prima.

La vostra musica sembra filtrare le idee migliori degli anni novanta. È il vostro periodo preferito?

Grazie mille! non abbiamo un periodo preferito in realtà, ma amiamo molto la musica degli anni novanta. Bands come Blonde Redhead, Sonic Youth, Slowdive, The Cure. Non c’è una ragione precostituita, abbiamo semplicemente ascoltato questa musica sin da quando eravamo giovanissimi, per questo fa parte del nostro retroterra culturale. Dobbiamo certamente ringraziare i nostri genitori e i loro dischi oltre alle nostre scoperte adolescenziali, tutte provenienti dai CD della collezione famigliare.

Ropoporose – Kernel, Foreign Moons, il nuovo album

In questo senso il vostro universo musicale parla un nuovo linguaggio, usando un vocabolario ben radicato e tradizionale. Sei d’accordo?

Non so se il vocabolario che utilizziamo possa essere ritenuto vecchio oppure tradizionale. Quello che facciamo è stato fatto certamente miliardi di volte, ma sono felice se suona fresco rispetto alle “oldies” che ci piacciono!

“Kernel, foreign moons”, il vostro nuovo lavoro, sembra più rumoroso e con una maggiore stratificazione rispetto al precedente album. Cosa è cambiato a livello produttivo e come avete lavorato in studio?

Abbiamo registrato “Kernel, Foreign Moons” in un piccolo villaggio nella Bretagna, dove c’è uno studio con alcune facilitazioni, tra cui la possibilità di dormire, e dove abbiamo passato dieci giorni. Abbiamo lavorato con Thomas Poli, che ha registrato e prodotto l’album. Ci è stato molto di aiuto, perché ci ha consentito di finire alcune tracce e di portare a termine intuizioni e idee. Thomas ha una grande conoscenza del lavoro in studio e il suono che ha creato per noi, credo sia davvero folle. Ha moltissimi effetti, chitarre, pedaliere fuori dal comune, una strumentazione che ci ha messo a disposizione per qualsiasi nostra necessità. Il suono dell’album è quindi in parte suo, come musicista, e siamo molto felici di aver impostato questa collaborazione, come l’incontro di due universi differenti. Come dici tu il disco suona più rumoroso anche perchè consideriamo Thomas come il Thurston Moore francese, in questo senso dovresti avere un’idea del tipo di suono che riesce ad ottenere quando è su un palco. 

Nel suono dell’album c’è qualcosa che mi ricorda alcune produzioni di Steve Albini, in particolare “Tribute to a Bus” degli 18th Dye, ma in una versione più aperta con molta più libertà e aria. Che ne pensi?

Sono felice che il nostro disco suoni come una produzione di Steve Albini; ha prodotto grandi cose per album che amiamo come per esempio Surfer Rosa dei Pixies, gli Shellac, le Breeders, gli album dei Dirty Three. Se poi credi che il nostro suono sia più libero, è un grandissimo complimento!

Credo anche che la vostra musica abbia una particolare attitudine per l’orchestrazione…

Hai ragione, dal momento in cui abbiamo aggiunto alcune linee di synth a quelle chitarristiche, a loro volta moltiplicate. Il risultato è come se fossimo in cinque a suonare in un brano. Ma non vogliamo ingannare le persone, ci interessa invece avvicinarci a quello che ci piace di più nella musica e che amiamo ascoltare. Del resto è dura essere solamente in due. 

Per esempio, amo molto un brano come “electric”, mi fa pensare ad un gioco di scambio tra l’estetica dei Velvet Underground e le colonne sonore italiane degli anni sessanta. C’è qualcosa nella musica che vi piace che si avvicina a quella per il cinema?

Onestamente non conosciamo molto i compositori italiani di musica per il cinema, ma è per me interessante vedere la musica come parte di un sistema più complesso, come quello cinematografico. È la prima volta che sento citare i Velvet Underground come una nostra influenza. Non abbiamo pensato né a loro né al cinema quando abbiamo scritto questa canzone, ma è interessante osservare come viene interpretata da chi l’ascolta. Non credo che la nostra musica sia propriamente cinematica, anche se non sono la persona più adatta per dirlo, perché non realizzo musica per immagini. Abbiamo ascoltato poche colonne sonore, come quella di Nick Cave e Warren Ellis realizzata per The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford
ma anche Simon Werner a disparu dei Sonic Youth. Ovviamente ci piacerebbe comporre una colonna sonora

Come vi trovate con la vostra etichetta, la Yotanka Records?

Siamo felici dell’esperienza con l’etichetta, ci hanno supportato moltissimo sin dal primo album, “Elephant love”, proponendoci un contratto di licenza, perché il disco era già uscito in forma auto prodotta. Adesso sono a tutti gli effetti i produttori del secondo album e siamo felici di esser parte dello stesso roster insieme a Laetitia Sheriff, con cui abbiamo condiviso il palco e il cui chitarrista, Thomas Poli, ha prodotto e registrato “Kernel, Foreign Moons”

Kernel / Foreign Moons punta alla terra e al cielo, il titolo stesso contiene questa tensione tra il terrestre e lo spirituale. Come mai questa dicotomia?

Abbiamo trovato il titolo dell’album prima di entrare in studio. Volevamo creare qualcosa che potesse unificare le dodici tracce del disco, perché alcune erano fresche di composizione e le restanti le avevamo suonate dal vivo per due anni consecutivi. 
Molte delle canzoni dell’album parlano di natura, animali, terra riguardo a “Kernel” (Fishes are love, Barking in the Park, Horses…) ma anche di spazio e vaghezza (Moon, Spouknit…) in relazione a “Foreign Moons. “Kernel” si riferisce al cuore di qualcosa, dal nostro punto di vista il centro del disco si trova in canzoni come Spouknit, Guizmo, None, Moon, Horses, perché tutte quante condividono lo stesso sentimento, mentre gli altri brani possono essere visti come “lune” nell’accezione di satelliti naturali. In questo senso le consideriamo come canzoni satellite che gravitano intorno al centro stesso del disco e mi riferisco, come ti dicevo, a brani come Barking in the Park, Skeletons, ma anche Electric.

Il vostro approccio con gli strumenti e molto sfaccettato. Suonate entrambi di tutto. Perchè?

Probabilmente è un bisogno più di una scelta e non è vero che suoniamo tutto; siamo solo due sul palco e abbiamo bisogno di coprire i vuoti. Non certo per suonare come se fossimo in dieci, ma dal momento in cui le nostre strategie tecniche ci consentono di suonare più di uno strumento alla volta, ci siamo cimentati con tutto quello che avevamo a disposizione.

E sul palco, come riuscite a rendere questa complessità?

Più che ricreare questa complessità, preferisco dire che sul palco siamo in grado di convertirla in complicità, considerato che dobbiamo tenere tutto sotto controllo, calcolare i tempi, suonare insieme e sintonizzarci sugli stessi sentimenti. Il live non è così distante dall’album in termini compositivi intendo. Ovviamente nell’album c’è un lavoro complessivo sul suono che non possiamo interamente riprodurre sul palco; ci sono alcuni arrangiamenti che non possiamo suonare dal vivo mentre per altri è possibile. Il live è molto meno arrangiato e più energico per il modo in cui suoniamo i brani.

Ropoporose – Moïra (Live)

L’Homeswinger è uno strumento unico, progettato da Yuri Landman (n.d.a. Musicista, sperimentatore e liutaio per musicisti come Sonic Youth, Liars e Half Japanese ). Come lo usate e che cosa riuscite ad ottenere in termini sonori ed espressivi?

L’Homeswinger è uno strumento a dodici corde che abbiamo fabbricato noi stessi durante un workshop tenuto da Yuri Landman che ha supervisionato tutti i progetti e ci ha portato i pezzi di cui avevamo bisogno. Sembra un Sitar, ma anche uno strumento cinese di cui al momento non ricordo il nome. Ha un braccio di metallo tra il corpo e le corde che ci consente di suonare su entrambi i lati dello stesso come se fosse il tasto di una chitarra. Nell’album lo abbiamo usato per “Barking in the Park”, il brano più strambo di tutti e quello che a mio avviso si avvicina maggiormente ad una canzone folk.

Per i set italiani ci sono alcune sorprese e idee che puoi anticiparci?

Prima di tutto non useremo l’Homeswinger sul palco perché si suona a sedere e perché occorre molto tempo per effettuare l’accordatura, considerato che si scorda molto velocemente. Suoneremo le chitarre, i synth e la batteria. Se avessimo qualche sorpresa per i concerti italiani, sarebbe un peccato raccontarla; in realtà non vediamo l’ora di tornare, la prima volta che siamo venuti nel vostro paese è stato bellissimo. 

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Yotanka Records

Ropoporose, videografia

Ropoporose – il video ufficiale di consolation diretto da Margaux Chetteau, tratto da “Elephant Love” (2015)

Ropoporose, il video ufficiale di Birdbus, tratto da “Birdbus” (2015)

Ropoporose, WHU WHU – il video

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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