Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Sara Lov già nel 2009, quando uscì il suo debutto solista Seasoned Eyes Were Beaming dopo la bella e artisticamente fruttuosa esperienza con i Devics assieme a Dustin O’Halloran. In questi sette anni Sara ha avuto modo di proseguire il suo discorso musicale prima con un album di cover, I Already Love You, e poi, dopo un periodo di difficoltà, con Some Kind Of Champion, il disco uscito lo scorso settembre che la conferma grande interprete e ottimo punto di riferimento per collaboratori provenienti da ambiti diversi, ad esempio Hauschka e Scott Leahy. Lo scorso aprile Sara ha girato l’Italia per una serie di concerti in trio, nel quale ha proposto sia i nuovi brani di Some Kind Of Champion sia pezzi più vecchi, un paio dei quali risalenti al periodo Devics. Proprio in occasione di uno di questi live, quello al Biko di Milano del 5 aprile, Sara ci ha concesso un’intervista, per ricapitolare questi ultimi sette anni, in particolare l’ultimo disco, e dare uno sguardo a un futuro che la vedrà impegnata in progetti ambiziosi. Ecco cosa ci ha raccontato
Ciao Sara, bentornata su Indie-Eye. Sono passati quasi sette anni dalla nostra precedente intervista, in cui parlammo soprattutto di seasoned eyes were beaming. In questi anni hai fatto prima il disco di cover I Already Love You e poi Some Kind Of Champion. Vorrei iniziare quindi chiedendoti qualcosa sul nuovo disco. Dato che è uscito da qualche mese, cosa pensi delle reazioni di pubblico e critica?
Penso di aver avuto delle buone reazioni. Era da un po’ che non pubblicavo qualcosa, quindi mi ha fatto piacere avere di nuovo un’interazione con i miei fan e anche con la stampa. Inoltre leggere e sentire cose positive mi ha fatto molto bene.
Ho letto che hai deciso di farti aiutare dal punto di vista strumentale perché non confidi molto nelle tue capacità in quel senso. Perché?
Nei Devics Dustin pensava sempre alla parte musicale, mentre io mi occupavo della parte vocale e della melodia. Qualche volta scrivo, ma lo faccio davvero lentamente! Quando ho fatto il primo disco c’era qualche canzone mia, ma era piuttosto vecchia. Poi ho fatto il disco di cover, quindi mi sono trovata a dover fare delle nuove canzoni per questo disco: alla fine ce ne sono due sul disco, The Dark e One In The Morning. Non le ho scritte velocemente, ci ho messo anche due anni per completarne una! Ho iniziato a pensare che se avessi dovuto contare solo su di me non ce l’avrei mai fatta, quindi ho pensato che dovevo cercare non dico un aiuto ma un’ispirazione all’esterno, perché comunque lavoro con persone che apprezzo, di cui amo il modo di suonare e la musica. Loro hanno portato delle idee su cui io quasi istantaneamente ho trovato testi e melodie; quando invece sto seduta con un foglio e una chitarra non riesco a fare niente. Io riesco a suonare la chitarra solo quando devo, preferisco cantare e non suonare nulla, perché per me la mia voce è il mio strumento e quindi è difficile concentrarmi su di essa mentre suono qualcos’altro. Preferisco non suonare nulla, però qualche volta in tour sono obbligata; in questo per fortuna non devo suonare molto la chitarra, devo quasi solo cantare. Mi piace quello che mi portano altri artisti, spesso cose a cui io non sarei mai arrivata; diventa speciale poi quando mescoli due elementi, invece se fai tutto da solo spesso non riesci a staccarti dalla tua idea iniziale.
Qual è il ruolo che dai al disco di cover all’interno della tua discografia? È un discorso a parte o lo consideri parte della stessa storia raccontata dagli altri due album?
È parte della stessa storia perché ho fatto un disco, ci ho messo del tempo e ho messo molto di me in quello che facevo, in canzoni che amo. Al tempo stesso però lo sento come qualcosa che non è mio, non sono mie canzoni. Il primo album e questo ultimo per me sono più significativi perché sono frutto del mio lavoro. L’album di cover è stato divertente, è quasi un sollievo non dover pensare alla parte di scrittura delle canzoni, che può essere molto difficile. Con le cover quindi era facile e leggero lavorare, non c’era fretta perché non c’erano canzoni da finire. Con quest’ultimo disco invece è stata più dura, ma più gratificante.
Una delle mie canzoni preferite del disco è la title-track. Puoi raccontarci qualcosa su di essa e sul perché ha dato il titolo all’intero disco?
La canzone viene da un periodo della mia vita, durato un paio d’anni, in cui sentivo di avere molte sfide e in cui sembrava che tutto fosse contro di me. Sentivo che era difficile andare avanti, perché continuavo a incontrare ostacoli in tutti gli ambiti: nella vita, nella musica, nella situazione in cui mi trovavo a vivere, nella salute. Erano tante sfide ed è da lì che viene la canzone, dal chiedermi “cosa sono?” durante quei momenti difficili. È la prima canzone che ho scritto con Scott Leahy, che è qui stasera e che suonerà la chitarra. Abbiamo iniziato a lavorare assieme quando lui suonava con i Sea Wolf. In quella band lui suona solo, però volevo scrivere con lui, perché riesco a connettermi molto con lui scrivendo. Questa canzone in particolare all’inizio mi ricordava Patsy Cline. Di solito quando una musica mi colpisce le parole escono in modo naturale e penso solo molto dopo a cosa significhino veramente. In questo caso ero in una relazione, anzi ero appena uscita da essa, e penso che questo fatto si senta nella canzone.
C’è anche un video per la canzone, che usa immagini di Godard e Fellini. Cosa ti piace in quei due registi? Hanno anche qualche influenza sulla musica che fai?
Amo il modo in cui catturano le emozioni, il loro stile cinematografico, le storie intricate che al tempo stesso sono semplici, gli attori che hanno molto carattere, personalità. Poi amo lei, Giulietta Masina, il suo tipo di bellezza super-drammatica e poetica. Per quanto riguarda il video ho pensato che fosse una cosa strana cercare di unire quei due film, perché da un certo punto di vista illustrano la storia della mia canzone. Mi sono divertita a farlo, penso che su Youtube molta gente faccia cose simili, spero di non aver offeso nessuno! Amo Bande à part di Godard e quella scena di ballo, ho dovuto rallentarla un po’ per adattarla alla mia canzone. Non so bene come spiegare perché li amo, posso dire che semplicemente sono una parte di me, ho visto tante volte quei film, fin da quando ero ventenne. Penso che mi abbiano influenzato, che ogni tipo di arte, musica o film o altro, mi influenzi, che alzi i miei standard riguardo a cosa voglio fare. La grande arte ti ricorda quanta bellezza ci sia e si possa raggiungere, ti spinge a cercare di essere altrettanto grande. È giusto mantenere alte le aspettative su se stessi e su ciò che si fa.
C’è anche un video per Trains, la canzone scritta con Dustin. In questo caso invece cosa ti ha spinto a sovrapporre la canzone a immagini di vita sottomarina?
Ho pensato che quelle immagini fossero bellissime, inoltre mi piace quando un video non racconta esattamente la canzone, quando trasmette solo un sentimento, una sensazione. Quelle creature mi hanno dato quella sensazione che pensavo avesse la canzone. Non ti porta via dal mondo, ma ti dà qualcosa di bello da ammirare. Non so, forse c’è un po’ di solitudine anche in quelle creature, forse qualcosa di triste ma al tempo stesso molto bello.
Nell’album hai lavorato anche con Hauschka. Come sei entrata in contatto con lui?
L’ho incontrato grazie a Dustin molti anni fa. Venne a Los Angeles per uno show e soggiornò a casa mia perché non aveva un posto dove stare. Ora non ha bisogno di ospitalità, perché la sua carriera sta andando molto bene! Quella volta diventammo amici, da allora passiamo molto tempo assieme quando viene a Los Angeles. Amo la sua musica! Per questo ho pensato che sarebbe stato interessante lavorare con lui, quindi l’ho chiamato e gli ho detto “hey, sto facendo questo album e stavo pensando di collaborare con molti artisti diversi, mi piacerebbe scrivere qualcosa anche con te!”. Lui ha accettato e mi ha mandato tre cose, tutte bellissime, quindi la mia parte mi è uscita velocemente.
Una delle canzoni che hai scritto interamente è The Dark, come dicevamo prima. Quella è anche la canzone che chiude il disco. Perché l’hai scelta?
Perché sembra che non c’entri molto con le altre, ha un suono diradato che sembrava adatto per chiudere l’album con una sensazione di calma.
In alcune recensioni viene notata un’influenza di Joni Mitchell sul tuo lavoro. Che ne pensi? E in generale, ci sono artisti che vedi come un modello per ciò che fai?
Amo sommergermi della musica degli artisti che mi piacciono. Quando mi innamoro di un disco, questo diventa l’unica cosa che voglio sentire in quel momento, come accade a ogni fan, credo. Le mie influenze quindi sono cambiate durante il tempo, molte volte. Ho iniziato ad ascoltare Joni Mitchell tre o quattro anni fa e non ho ancora finito, è ancora tutto ciò che voglio ascoltare. Sono quasi ossessionata da lei. Mi dedico ad un album alla volta, cerco di impararlo e comprenderlo appieno. Penso che lei sia un genio assoluto, sia dal punto di vista musicale che lirico. Poi suona tutti quegli strumenti: è una chitarrista fantastica, ma anche una pianista, un’arrangiatrice, una produttrice. Forse però la prossima volta che ci incontreremo sarò ossessionata da un altro musicista, chissà.
Andando invece indietro all’album di cover, volevo chiederti perché hai scelto di inserire La Bambola. Perché proprio quel brano, tra i tanti che probabilmente hai avuto modo di ascoltare quando vivevi in Italia?
Perché mi sono innamorata di quella canzone quando l’ho sentita. Alcuni amici italiani mi hanno aiutato a trovare un pezzo in italiano, perché volevo inserirne uno nell’album. Mi hanno dato diversi suggerimenti, ho ascoltato davvero tante cose e mi sono innamorata de La Bambola, amo la voce di Patty Pravo in quella canzone. Probabilmente il significato per me è diverso, perché non sono italiana, non ho una storia legata a quella canzone e non ho una vera connessione con il testo. Io guardo solo al suono della canzone, alla melodia, al modo in cui le parole mi riempiono la bocca. Non penso di connettermi con le parole e il loro significato, amo solo cantarle. Probabilmente ci sono molte altre canzoni italiane altrettanto belle, che però non conosco. Ne ho sentite molte, però cercavo qualcosa che andasse bene per me e per il mio stile, che suonasse bene con la band. Una Joni Mitchell italiana non andrebbe bene per me così come un Fabrizio De André, non sarei in grado di cantare brani simili, l’italiano non è la mia lingua e non potrei capire davvero quello che canto.
Nel concerto suonerai anche un paio di canzoni dei Devics: quali? E come le hai scelte?
I pezzi sono Salty Seas e Heaven Please. Le ho scelte per una serie di motivi: il primo è che sono pezzi che devono suonare bene con solo due strumenti, dato che con me ho solo due musicisti. Inoltre voglio fare pezzi che penso piacciano al pubblico, oltre che naturalmente a me.
Ultima classica domanda: progetti per il futuro?
Spero di non impiegare altri cinque o sei anni per fare un altro album. Sto lavorando a un progetto per orchestrare la mia musica, cercheremo di fare dei concerti con orchestra, nel senso che andremo di città in città con gli spartiti e li faremo suonare all’orchestra locale. Così è più facile organizzare un tour, piuttosto che portare in giro un’intera orchestra. Lo farò negli Stati Uniti, ci vorrà circa un anno prima che accada, perché le orchestre vanno prenotate molto in anticipo. Tornando invece al prossimo album, credo che registrerò con Dustin invece che con Zac Rae, per fare qualcosa di diverso. Dustin ha molta voglia di lavorare con me, abbiamo parlato anche della possibilità di fare un album come Devics, ma non so se ce la faremo, anche perché lui è molto impegnato.