giovedì, Novembre 21, 2024

Senza Tetto Né Legge: la bruciante parabola dei Death Grips

“We are now at our best and so Death Grips is over. We have officially stopped. All currently scheduled live dates are canceled. Our upcoming double album the powers that b will still be delivered worldwide later this year via Harvest/Third Worlds Records. Death Grips was and always has been a conceptual art exhibition anchored by sound and vision. Above and beyond a “band”. To our truest fans, please stay legend.”

Avrei ucciso per loro. Sgozzato capretti alla luce della luna. Bruciato chiese. Profanato tombe. Stuprato suore. Ero in debito. Mi avevano restituito la speranza. Mi avevano dimostrato che la musica viscerale, sincera e brutale poteva ancora avere un suo posto nel mondo.

Che persino al giorno d’oggi era possibile emergere da una palude di merda, suscitare l’interesse del mercato e poi fottersene. Perché alla fine dei giochi – sarà banale e anche un po’ naif dirlo, ma tant’è – non dovrebbe essere il mercato a dettare legge. Perché il significato dell’aggettivo “indipendente” dovrebbe essere molto più vicino a “vaffanculo” che a “vorrei ma non posso”.

Perché il valore delle cose che si fanno sta nel significato delle cose stesse, non nei diritti d’autore o nel numero di copie vendute. Nell’arco degli ultimi quattro anni i Death Grips hanno portato avanti la loro personale crociata con uno stoicismo degno di nota, incuranti di tutto e di tutti, trascinati esclusivamente da una passione eretica e bruciante.

Stando alle ultime dichiarazioni del gruppo, tale passione deve aver esaurito la sua spinta propulsiva. Dal momento che una carriera non è mai stata presa in considerazione, la cosa finisce qui. Grazie, è stato davvero bello finché è durato. Alla luce dei recenti avvenimenti Niggas on the Moon, il primo capitolo del nuovo doppio album The Powers That B (pubblicato a inizio Giugno e distribuito – as usual – gratuitamente via internet) si pone come inatteso epitaffio, e permette di segnare un punto d’arrivo definitivo nel percorso evolutivo del gruppo.

A meno che Jenny Death (il secondo capitolo del disco, previsto entro l’anno) non si riveli un’imprevedibile inversione di rotta, gli elementi attualmente sul piatto ci permettono di analizzare la parabola di MC Ride (al secolo Stefan Burnett, voce e testi), Zack Hill (batteria) ed Andy Morin (aka Flatlander, sinth/samples) con la dovuta completezza.

L’entità Death Grips si palesa al mondo nel Marzo del 2011, diffondendo in maniera autonoma e virale un EP eponimo, trainato dal “singolo” Full Moon (Death Classic) e dal relativo video. In questa fase i nostri non sono altro che un’interferenza nel flusso continuo della rete, se è vero che l’unico membro a godere di trascorsi vagamente noti è l’ex Hella Zack Hill. La natura barricadera ed amatoriale dell’intera operazione esplicita quello che, fino alla fine, rimarrà il modus operandi dei tre: autarchia totale, praticata tramite l’impiego esclusivo di mezzi propri (poveri, per lo più), e sfruttamento delle possibilità offerte dal web per azioni a metà strada tra il situazionismo e l’incursione terrorista. I brani presentano in nuce le caratteristiche dei Death Grips a venire: beat furiosi e scarni, campionamenti rumoristi, poetica spoken word urlata con rabbia hardcore, estetica cruda ed iperrealista.

Nonostante la pura violenza del progetto renda da subito difficile ingabbiarlo all’interno dei canoni di genere, l’EP si rivela nel complesso la cosa più vicina all’hip hop mai prodotta dai tre, tanto dal punto di vista lirico (in brani come Death Grips, Full Moon o Face Melter le invettive di Ride si avvicinano agli stereotipi del dissing, sebbene riletti attraverso l’ottica di un maniaco omicida) quanto sul piano strettamente musicale (fatte le dovute distinzioni, si possono tracciare paralleli con il minimalismo di scuola Def Jam dei vari LL Cool Jay e Run DMC). Ma il cambiamento è già dietro l’angolo.

Nemmeno il tempo di tirare il fiato che ad Aprile viene licenziato il primo full-lenght, Ex Military, diffuso con le stesse modalità dell’esordio. Fin dal brano di apertura, la ferale ed incessante Beware, MC Ride espone su cadenze doom la propria controversa filosofia di vita: il nostro si presenta come una figura bestiale e Luciferina (“I am the beast I worship”), un ribelle che attinge tanto al superuomo di Nietzsche (“wage war like no tomorrow ‘cause no hell, there won’t be one / for all who deny the struggle the triumphant overcome”) quanto ad un misticismo di stampo black metal (“Possessed by the chosen few / shining to reveal the ways / of a darkness that pervades / all that is and ever was / Inferno of witches blood”) per abbracciare la morte ed il caos, contrapponendosi alla mediocrità del popolo bue.

A posteriori è facile intuire come tali tratti caratteriali non rispecchino necessariamente la vera indole di Burnett, quanto piuttosto quella dell’alter ego che il vocalist ha creato ad uso e consumo del progetto Death Grips (MC Ride, perlappunto). Ad onor del vero l’atteggiamento introverso mostrato dal frontman durante le (rare) interviste, così come il suo frasario ricercato, stridono in maniera piuttosto evidente con l’immagine del maniaco omicida/negromante/tossico propagandata dai testi. Sia come sia, la medesima volontà di potenza tornerà – assieme ad evidenti sintomi di squilibrio mentale – in Guillotine, Lord of the Game, Takyon (Death Yon), Thru the Walls, Known for It, gorghi industrial/dance in cui bass sinth pulsanti e breakbeat punitivi annichiliscono l’ascoltatore con l’equivalente in musica di un olocausto nucleare. Altrove vengono affrontati temi maggiormente legati al quotidiano: la tirata antiautoritaria di Klink, la critica alla società dell’informazione esposta in Culture Shock (brano insolitamente glitchy e solare per gli standard dei nostri), l’insaziabile fame di droga e sesso che tormenta Ride (I Want It I Need It) o la paranoia indotta nello stesso vocalist dalle sostanze che assume (svelata attraverso il lungo incubo percussivo di Blood Creeping).

In questa fase i nostri mantengono ancora un legame con la tradizione rock – esplicitato dai sample di Black Flag, Pink Floyd, Jane’s Addiction scelti per arricchire i brani – finendo per porsi come una versione demoniaca dei Beastie Boys. Ma il cordone ombelicale che li tiene ancorati al crossover verrà ben presto reciso, tanto che il successore di Ex Military si presenta già come qualcosa di integralmente e fieramente sintetico. Nel frattempo il gruppo è stato notato e messo sotto contratto dalla Epic. Un avvenimento che ha fornito ai nostri maggiore visibilità, ma che in termini concreti non sembra aver influenzato minimamente il loro corso. Burnett, Hill e Morin continuano infatti a produrre musica (e relativi video a basso costo) in totale autonomia. The Money Store esce ad Aprile 2012 e segna un decisivo passo avanti in termini compositivi. L’opener Get Got prende da subito l’ascoltatore in contropiede: suoni quasi (quasi!) addomesticati accompagnano la recitazione di Ride, intento a declamare i suoi deliri paranoici con un registro insolitamente rilassato.

Ma è l’illusione di un momento, e già la spirale industriale di The Fever (Aye Aye) distribuisce sberle ad ampio raggio, alzando di una decina di tacche il livello di aggressività sonora. Di fatto l’album si rivela molto meno immediato del predecessore, ed esplora in maniera approfondita le possibilità offerte dalla strumentazione elettronica: è pur vero che Hustle Bones o System Blower recuperano la grazia da bulldozer di Ex Military, ma già brani come Lost Boys, Black Jack, Double Helix spalancano finestre su di una dimensione ostile, in cui bordoni di sinth e occasionali glitch coniugano sapientemente la tamarraggine dei Prodigy con la ambient maligna degli Autechre. Per contro, le uniche due eccezioni alla regola rappresentano incursioni kamikaze in territori pop, che mai più si ripeteranno con la stessa intensità. I’ve Seen Footage è un esplicito tributo alla golden age dell’hip hop, un omaggio ai pattern ritmici di Run DMC e Salt’n’Pepa; Hacker si spinge oltre, storpiando l’electropop anni ’80 fino a farne una mostruosa caricatura. Nonostante il frasario di MC Ride si sia fatto più ostico e frammentato, inquinato com’è da crescenti ondate di paranoia, i numeri per sfondare ci sono tutti. A questo punto i Death Grips rappresentano lo stato dell’arte in termini di hipe, e tengono in pugno la comunità alternative.

Ma, invece di capitalizzare sul proprio successo e tener fede agli accordi contrattuali con la Epic (un tour mondiale per promuovere The Money Store è stato organizzato per quello stesso Maggio) i tre decidono di rinchiudersi nuovamente in studio, assecondando una inderogabile urgenza creativa. Ideato e registrato nell’arco di quattro mesi, No Love Deep Web rappresenta per chi scrive l’apice compositivo del gruppo, e si rivela uno dei dischi più intensi e brutali dell’ultimo decennio. Fortemente influenzata dalla dimensione claustrofobica in cui è stata concepita, l’opera si affaccia su scenari apocalittici, in un susseguirsi di allucinazioni tormentate da paranoia, declino, droga e suicidio che trasmettono all’ascoltatore un senso di minaccia reale.

Una poetica che viene coerentemente supportata dalle basi di Hill e Morin: coesi come non mai, i due terroristi sonori incanalano verso la forma canzone le loro propensioni sperimentali, inanellando una serie di brani granitici ed oppressivi che sfruttano al meglio la quasi totale assenza di programmazioni (Hill suona personalmente ogni beat di batteria acustica e/o elettronica presente sull’album). Nonostante l’anima fortemente sintetica di No Love Deep Web, la musica finisce quindi per acquisire una fisicità catacombale degna di certo heavy metal: una caratteristica che – fatta eccezione per gli episodi più “morbidi” di Black Dice e Pop (anticipatori dello stile etereo che comincerà a svilupparsi dal disco successivo) – conferisce all’opera nel suo complesso una natura monolitica.

La dubstep d’assalto di Come Up and Get Me apre le danze con un Ride allucinato, intento a dimostrare le sue doti di narratore: asserragliato all’interno di un palazzo senza via d’uscita e braccato da non meglio identificati inseguitori, il nostro si dichiara pronto ad abbracciare la morte; destino che tuttavia non accetterà senza prima combattere. Lil Boy sembra descrivere la spirale discendente di un drogato all’ultimo stadio, mentre No Love – il brano dove la componente doom/sludge dell’opera raggiunge il suo apice – dipinge con linguaggio crudo gli esiti di un infernale bad trip (“How the trip never stops / on and on, it’s beyond insane / why I set myself up / in a raging sea of flames? / swallowed way too much / couldn’t handle it I fell / down a spiral stair case winding to hell”). Lock Your Doors, Hunger Games, Stockton e Bass Rattle Stars out the Sky sono cantilene tribali per un mondo in rovina, brani estremamente scarni in cui Hill ha campo libero per dimostrare le sue incredibili doti di batterista.

Deep Web schiera una ferale melodia di sinth che avrebbe fatto la felicità dei Crowbar, e vede Ride tornare alle consuete tematiche paranoiche (“Call me crazy but I swear my line’s been tapped / in my glass house prepared for surprise attack / realized I held the blade inside my back / omega megalomaniac”). In chiusura, la desolante prospettiva sulla società dell’informazione svelata da Artificial Death in the West sembra scaturire dai peggiori incubi del John Carpenter musicista.

La Epic (già contrariata per il cazzo di Hill beatamente esibito sulla front cover) si rifiuta di distribuire NLDW fino al nuovo anno. Per tutta risposta, il primo Ottobre del 2012, il gruppo rende l’album disponibile in free download attraverso i propri canali web. È così che una relazione forse mai destinata a durare si interrompe nel peggiore dei modi. Niente affatto turbati, i tre vanno avanti per la loro strada con la determinazione di un caterpillar: fondano l’etichetta Third Worlds (allacciando un rapporto di distribuzione esclusivo con un’altra major, la Harvest) e, ad Ottobre 2013, licenziano gratuitamente via web Government Plates. L’opera si smarca in maniera evidente dalla rocciosa monocromaticità del predecessore, segnando l’ennesimo cambiamento di rotta.

A tratti l’approccio schiacciasassi sembra ancora funzionare (si ascoltino al riguardo le devastanti performance di Ride e Hill sull’opener You Might Think He Loves You For Your Money But I Know What He Really Loves You For It’s Your Brand New Leopard Skin Pillbox Hat, oppure l’alternanza tra pattern spettrali e beat punitivi in I’m Overflow), ma in brani come Anne Bonny, Two Heavens, Governmente Plates, Bootleg (Don’t Need Your Help), Whatever I Want (Fuck Who’s Watching) l’aggressività viene continuamente stemperata da innesti glitch o da eteree divagazioni elettroniche in puro stile IDM, che sopraggiungono senza preavviso alcuno.

Allo stesso modo, gli arpeggiatori deraglianti e la pompatissima cassa techno che caratterizzano l’incipit di Big House cedono repentinamente il passo ad una cantilena demente. Il “singolo” Birds riassume al meglio i tratti di questo procedere schizoide, destreggiandosi senza soluzione di continuità fra campionamenti vocali ossessivi e filastrocche drogate. In tale contesto le tracce che dimostrano maggiore solidità sono gli strumentali This is Violence Now (Don’t Get Me Wrong) e Feels Like a Wheel, splendidi esempi di attack dance che non prendono prigionieri. Non c’è dubbio che le spiazzanti tecniche compositive di Government Plates sacrifichino parte della potenza di fuoco dei Death Grips, ma non per questo rendono la formula del gruppo meno estrema. Sembrano anzi conformarsi alla progressiva perdita di lucidità di Ride, ormai costantemente combattuto (se non altro sul piano lirico) tra il guardarsi le spalle e l’abuso di varie sostanze intossicanti.

Niggas on the Moon (il primo capitolo dell’annunciato doppio album The Powers That Be) arriva senza troppe cerimonie lo scorso Giugno: al solito, poco più di un annuncio ed un link di free download sul profilo facebook del gruppo. Solo che stavolta i nostri si giocano l’asso, perché Björk (estimatrice del gruppo fin dai tempi della Biophilia Remix Series) è della partita in ognuna delle 8 tracce. O almeno così sembra. Di fatto, più che di collaborazione, dovremmo parlare di Texas Chainsaw Massacre. Nel più puro stile Death Grips, le tracce vocali della cantante islandese vengono macellate senza alcun ritegno, squartate e poi nuovamente assemblate in forma di campionamenti, ridotte insomma al rango di semplici “found objects”. Un modus operandi che dà la misura dell’intera operazione, se è vero che Niggas si dimostra in assoluto l’opera più astratta, complessa e cerebrale del gruppo. Su Up My Sleeves e Billy Not Really i nostri miscelano ancora fisicità e delirio, riallacciandosi in qualche modo allo stile di Government Plates, ma dal terzo brano in avanti l’album parte completamente per la tangente: l’ascoltatore viene proiettato in una dimensione estraniante – qualcosa a metà fra la compilation footwork e un disco che salta in eterno – dove i gorgheggi vocali di Björk non sono altro che mere interferenze elettroniche, e dove i beat schizoidi moltiplicano all’infinito la sensazione di caos imperante.

Ride si mantiene perlopiù sul registro rilassato, come un pazzo che ha smesso di scagliarsi contro le pareti imbottite della sua cella per sedersi a parlare con sè stesso. I testi sono ormai puro ermetismo; se si esclude Fuck Me Out (l’ennesimo resoconto della visione fredda e materialista con cui il frontman dei Death Grips guarda all’atto sessuale), possiamo solo abbozzare ipotesi: Black Quarterback potrebbe essere un ironico riferimento al presunto plagio operato da Kanye West nei confronti del gruppo (il rapper mainstream viene così ridimensionato da Black Skinhead a Black Quarterback, una figura ben più rassicurante e in linea con l’america-way-of-life); Say Hey Kid sembra un’inattesa disamina delle dinamiche razziste osservabili negli USA (“Don’t it feel good to drive a bus? / People need to get picked up / Pride your uniform and stunt / You do what my people would grunt”); Voila e Big Dipper toccano temi differenti, come il signficato della fama e del successo, il rapporto tra musicista e fan, così come il ruolo di guida che – suo malgrado – Ride si è trovato ad assumere per un’intera generazione di disadattati. Poco dopo l’uscita di Niggas viene annunciato un tour estivo di spalla a due giganti dell’alternative rock come Nine Inch Nails e Soundgarden, un evento che prospetta ai tre la possibilità della consacrazione definitiva.

Tuttavia, dopo alcuni episodi controversi (i nostri disertano un paio di apparizioni live), il gruppo rilascia sul proprio profilo facebook la dichiarazione che nessuno avrebbe voluto leggere: senza preoccuparsi di addurre ulteriori spiegazioni, i Death Grips ammettono che il loro percorso artistico è ufficialmente giunto al termine. È così che i nostri tornano al nulla, da cui altrettanto repentinamente erano stati generati. Che si tratti di un effettivo scioglimento o di una geniale trovata pubblicitaria solo il tempo potrà dirlo. Nell’attesa, la frase con cui Trent Reznor ha commentato la vicenda sul suo account Twitter ci sembra riassumere magistralmente la parabola del gruppo; un collettivo artistico che ha fatto della frase “senza tetto né legge” la propria filosofia di vita: sorry everyone… why would I have ever thought those dudes could keep it together?

Death Grips sul web

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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