Nel 1961, all’interno dell’università di Yale, viene allestito uno dei più celebri esperimenti di psicologia sociale. Il ricercatore Stanley Milgram, dietro compenso pattuito, seleziona un gruppo di persone per partecipare ad un esperimento sulle funzioni della memoria e le dinamiche di apprendimento. Dietro l’apparato scientifico e il test dichiarato, se ne nasconde un altro, il cui scopo è quello di osservare il comportamento dei soggetti coinvolti rispetto agli ordini impartiti da una qualsiasi autorità e i criteri di obbedienza che ne conseguono, quando le richieste vanno in direzione contraria rispetto ai principi morali degli esecutori.
Milgram si serve di un finto generatore di corrente, con una serie di voltaggi variabili che non hanno alcun effetto, e lo mette a disposizione di un esaminatore durante lo svolgimento di un test. La vittima, secretata da un vetro opaco, deve subire le scariche somministrate in modo incrementale, nel caso le risposte al test risultino sbagliate.
In realtà, la presunta vittima è sempre un complice di Milgram e chi invece si trova nel ruolo del carnefice temporaneo è uno dei numerosi soggetti sui quali pende il test effettivo: quello utile a determinare le dinamiche dell’obbedienza, ovvero il rifiuto o l’accondiscendenza ad eseguire un ordine impartito da un potere autoritario, le cui conseguenze possono causare sofferenza per gli altri.
Tre mesi dopo il processo allestito a Gerusalemme contro Adolph Eichmann, Milgram conduce le sue ricerche con l’ombra della Shoa alle spalle, nel tentativo di spiegare le origini del male attraverso le scienze cognitive.
Siamo partiti da qui per parlare del video di Shock the Monkey, primo singolo estratto dal quarto album di Peter Gabriel e diffuso a partire dal settembre 1982.
Le interpretazioni più gettonate tra fan e stampa specializzata, includono l’ipotesi che Gabriel si fosse ispirato agli esperimenti di Milgram per allestire il set e la simbologia del videoclip diretto da Brian Grant con la sua MGMM, la compagnia di produzione inglese fondata insieme a David Mallet, Scott Millaney e Russell Mulcahy.
Mentre We do what we’re told (Milgram 37), brano contenuto nel successivo So, è esplicitamente dedicato al lavoro sperimentale dello scienziato americano, Gabriel ha sempre negato qualsiasi connessione con le idee alla base di Shock the Monkey. Più incline a spiegare le liriche come l’effetto di una mente gelosa nella gestione del desiderio amoroso, cita il modello Tamla Motown come propellente iniziale, poi disatteso dalle scelte sonore e dagli arrangiamenti del brano provenienti da altre interpolazioni del sud del mondo.
Nel video ufficiale le dinamiche dell’obbedienza vengono casomai raccontate secondo coordinate diverse, dove le antinomie tra mondo civilizzato e fantasia sciamanica si sovrappongono, fino a determinare la spaccatura della realtà conosciuta. Se le liriche di Gabriel tendono a individuare l’innesco istintuale come conseguenza di un trauma, secondo un procedimento che seguirà dinamiche simili con le suggestioni psicoanalitiche di Diggin’ in the dirt, Brian Grant costruisce intorno a questo contrasto un mondo visuale sospeso tra tecnologia e collasso della scienza. Lo fa incorporando nel video tutte le istanze che PG4 attraversava. Queste coinvolgevano la prassi realizzativa incuneata nell’interstizio tra organico e inorganico, grazie all’utilizzo empirico del Fairlight CMI, ma anche aspetti tematici dove l’incontro tra civiltà occidentale e tradizioni aliene, generava un cortocircuito capace di mettere in discussione la superiorità cognitiva della prima. Gli elementi del linguaggio sono i suoni, la libreria dei campionamenti, la ricerca dei rumori, il patchwork etnomusicale assemblato con spirito improvvisativo e urgenza punk insieme a David Lord ed infine la dimensione simbolica e rituale delle liriche.
Oltre a questi segni, ce n’è uno visuale legato alla realizzazione dell’artwork, sia per l’album che per le foto utilizzate sulle stampe di Shock the monkey, il singolo. Gabriel coinvolge lo scultore Malcolm Poynter dopo aver visto un libro dell’artista, dove l’utilizzo della distorsione modificava oggetti e manufatti. Poynter utilizza media eterogenei, tra cui il video, processando le immagini con una frammentazione analogica e ottica dello spazio percettivo. Utilizza quindi lenti di Fresnel, specchi flessibili e immerge Gabriel in un mondo caotico costituito dalle sue sculture.
Questa dimensione stabilisce una relazione feconda con l’attività onirica e accentua l’emersione del rito. Il videoclip rielabora elementi molto simili e rende esplicito il contrasto tra i due mondi.
Nel video, Peter Gabriel li abita entrambi. Due stanze adiacenti che in realtà caratterizzano la stessa. Una ospita la psiche che si difende da qualsiasi intrusione esterna. Gabriel potrebbe essere alternativamente un ricercatore, un diplomatico o un uomo dei servizi segreti. L’immaginario neo-noir influenza la penombra e le luci radenti che attraversano lo spazio scenico, ispirato, come dichiarerà lo stesso Grant in un’intervista, agli interni di Blade Runner, uscito il giugno dello stesso anno.
L’altra è l’immagine complementare; sovraesposta alla luce, infestata da oggetti e simbologie rituali e invasa dagli elementi, viene dominata da un Gabriel sciamano, che porta sul corpo i colori e i segni di alcune tribù del Sud America. Secondo l’idea discussa da Grant insieme a Gabriel, il rimosso del rito preme dal subconscio contro una società ipertecnologizzata che ha perso ogni contatto con esso. Questa lotta viene evidenziata dal progressivo disfacimento della prima stanza e dalla penetrazione di forze elementali che sovvertono la priorità tra interno ed esterno.
In termini formali il video coincide con il paradigma della videomusica introdotto da MTV l’anno appena precedente e moltiplica tutte le possibilità del formato, superando l’utilizzo dello studio come espansione di motivi grafici legati all’identità visuale degli artisti. Se si guardano i video di Grant appena precedenti, fino a Physical per Olivia Newton John, ci si rende conto del salto. Pur mantenendo la centralità del performer, lo spazio scenico si amplia, lo studio incorpora altri segni per arricchire l’esperienza performativa, mentre si stabilisce un dialogo crossmediale più articolato tra video e identità autoriali, disseminate attraverso ambiti e supporti diversi.
Tra questi, le tre sculture innestate con elementi geologici che introducono subliminalmente il video, per poi ritornare sul tavolo dell’ufficio di Gabriel e negli ultimi secondi, quando i segni dello sciamano esplodono sul volto del suo doppio. Il mondo caotico approntato da Malcolm Poynter per gli scatti che andranno a costituire il montaggio dei vari artwork, viene ricombinato nel video di Grant con la forza di un rito di passaggio.
Le immagini della scimmia proiettate sul muro, si sovrappongono al volto di Gabriel e considerate le connessioni con lo sciamanesimo, non mettono in scena una riflessione evoluzionistica. Perché ad esser rovesciate sono proprio le categorie cognitive sollecitate da Stanley Milgram. Più che interrogare le origini del male come riflesso condizionato da uno stato eteronomico, il lavoro di Gabriel/Grant mostra un progressivo disancorarsi dal sistema dell’autorità. Eliminate le pressioni sociali e la legittimità della società occidentale come insieme di norme, emerge in modo violento e inesorabile la capacità di attingere forza dagli animali totemici. Il mondo come lo conosciamo, può essere allora distrutto e ricodificato.
Pre-umano e post-umano si fondono nell’avventura estetica di Peter Gabriel.