Tra i necrologi triturati nello spazio ubiquo dei social dopo la notizia della morte di Sinéad O’Connor, ci ha colpito quello scritto da Beth Orton. Al centro il martirologio anche mediatico che l’artista irlandese ha subito in tutti questi anni, fino a minarne la salute. “Era un’artista nella forma più alta e più retta – scrive Beth – Non c’è una classifica per orientarsi tra le canzoni che vengono dall’anima. L’innesto più difficile non è imparare i versi, ma viverli. Sinead O’Connor era una veggente ed era sottilissima, trasparente, avrebbe dovuto essere trattata con il massimo dell’amore, della cura e del rispetto.”
In calce un frase che Sinéad aveva riportato appena un anno fa, nell’area commenti del suo profilo mantenuto sul New York Times: “Essere ben adattati ad una società profondamente malata non è misura di una buona salute“.
La frase in realtà non è sua, ma uno degli aforismi più noti di Jiddu Krishnamurti la cui espressione è parte di una riflessione più ampia, contenuta nel terzo volume dei Commentari Sulla Vita. Quel potenziale estratto è stato rimodellato, trascritto e trasferito da numerosi artisti e pensatori attraverso altrettante appropriazioni. Se quindi l’attribuzione ha una provenienza difficile da stabilire, soprattutto da quando la citazione è diventata un vero e proprio meme, il pensiero del mistico apolide è riconoscibile nella descrizione di un rapporto mai riconciliato tra società e individuo, laddove la linea tra integrazione e follia mostra confini incerti e il disadattamento è uno stato della coscienza codificato dalla prospettiva di una società corrotta.
Il dibattersi di Sinéad nell’arena giustizialista dei media, l’ha immolata nel perimetro definito dall’invettiva. Gesti che hanno disegnato un rituale quasi apotropaico, scagliato contro la società dello spettacolo, del tutto eccedenti rispetto alla quadratura catodica e rilanciati con vita propria nella successiva frammentazione digitale.
L’invettiva è un’espressione oratoria connaturata alla rabbia che non è raro trovare nelle liriche della sua discografia, attraverso fulminanti trasfigurazioni poetiche. Questa crea una dialettica anti apologetica che reagisce in modo attivo rispetto alle ipostasi che le sono state affibbiate e che includono numerose gradazioni dell’essere, dal terrorismo alla santità.
Dove sia Sinéad, tra Marie Bernadette e Shuhada’ Davitt, è possibile scoprirlo solo su una parallasse, dove il corpo e il gesto sollecitano associazioni, anche iconologiche, ficcanti quanto arbitrarie e probabilmente generate dalle nostre personali ossessioni.
All’interno di Universal Mother, il quarto album della musicista irlandese uscito nel 1994, emerge una versione di All Apologies dei Nirvana, pubblicata alcuni mesi dopo la morte di Kurt Cobain. Un’operazione che avrebbe potuto essere stridente e controversa, ma che al contrario rivela le capacità di riscrittura di O’Connor, nel produrre senso attraverso la modulazione vocale.
Scarnificando il significato letterale delle liriche con l’incedere di una nenia infantile, la sua versione del brano di Cobain spazza via anche tutta la porno-letteratura critica esercitata dal tavolo autoptico.
Poco importa che la nuda lettera sembri adattarsi alle biografie di Kurt e Sinéad, più interessante che all’interno di un disco lacerante che si allontana dalla traccia matrilineare più intima per costruirne un’altra possibile in comunione con il mondo, la prassi ciclica del perdono si liberi in un colpo solo dell’invettiva come arma di difesa e della preghiera come strumento di sottomissione.
Nel videoclip del brano tutto parte e finisce nell’occhio di un bimbo; un dialogo con la parte irriducibile di Cobain certamente, ma anche un’oscillazione di genere che a un certo punto dissolve i contorni dell’immagine nella sfocatura da cui emergono i colori, le forme e le necessità dell’Io.
All in all is all we are