domenica, Dicembre 22, 2024

Sinfonico Honolulu – Il Sorpasso: la foto-intervista

Ukulele e cantautorato: come unire due mondi che a prima vista sembrano così lontani? La formula magica è quella dei  Sinfonico Honolulu, orchestra livornese che nella sua ormai più che quinquennale esistenza, iniziata come cover band di brani britannici di ogni estrazione, è arrivata a scrivere materiale originale in italiano, dal forte impatto lirico, suonato senza utilizzare la chitarra ma con un ensemble di ukulele. Il risultato di questa evoluzione sta nel disco da poco uscito per Santeria intitolato Il Sorpasso, vero gioiellino utile per capire tutte le possibilità espressive del piccolo strumento hawaiano, che accompagnato da poche percussioni riesce a creare mondi sonori assolutamente vari e credibili. Abbiamo cercato di carpire i segreti dell’Orchestra con una bella intervista di gruppo prima del loro concerto al Circolo Magnolia lo scorso 30 ottobre. Ecco cosa ci hanno raccontato

Il Sorpasso è il vostro nuovo disco, il primo in cui ci sono anche vostri brani inediti. Da dove è arrivata questa voglia di scrivere materiale originale? E quali sono state le maggiori sfide e difficoltà da superare?

In realtà per noi il passaggio è multiplo: da una parte c’è il comporre brani, dall’altra c’è il passaggio alla lingua italiana. Entrambe le cose fanno però parte del percorso che abbiamo fatto: da band che rivisitava brani del patrimonio anglofono abbiamo avuto l’occasione di essere chiamati al Premio Ciampi, dove abbiamo rivisitato brani di questo cantautore di casa nostra, dopodiché abbiamo incontrato Mauro Ermanno Giovanardi, con cui abbiamo approfondito la questione legata al cantautorato in italiano. Poi durante la strada abbiamo messo a fuoco questa esigenza di scrivere. Una cosa che non diciamo mai, ma che è importante, è che scriviamo tutti, lo facevamo già a prescindere da questo progetto. Quindi avevamo del materiale a disposizione che non era stato sfruttato fino ad ora. Un altro momento importante è stato un concerto che abbiamo fatto con Giovanardi e con Niccolò Fabi, che si esibiva in trio. Vedere Niccolò da bordo palco in una formazione semplicissima e sobria ci ha fatto capire la semplicità e la bellezza della forma canzone in italiano. Quando si fanno cover si arriva a sentirle come proprie, abbiamo voluto fare un piccolo passo ulteriore e sentire nostre canzoni scritte da noi.

Ma nel vostro repertorio è presente ancora qualche cover, ad esempio Vento d’estate. Come le avete scelte per questo disco? Volevate che stessero bene con le vostre canzoni?

Vento d’estate è finita nel disco proprio per quello che dicevamo poco fa, ci siamo accorti di voler fare questa cosa proprio grazie a quella canzone, quindi per noi è simbolica. Tutto fa un po’ male invece è un pezzo che già facevamo dal vivo con Mauro, però non l’avevamo inciso in Maledetto colui che è solo; ci sembrava bello che Giovanardi fosse ancora con noi anche in questa avventura. Fra cent’anni è un pezzo di Ciampi, quindi anch’esso simbolico per noi. Vecchio frac invece è frutto della collaborazione con Appino, ci sono stati proposti una rosa di pezzi e quello ci sembrava il più interessante ed adatto.

Il titolo del disco è un omaggio a Dino Risi?

Anche, ma non solo. Innanzitutto è una parola che ci piace, perché è una parola che si muove, che ti porta da qualche parte. Oltre a ciò Il sorpasso è un bellissimo film che ci riguarda da vicino, perché è ambientato sulla costiera livornese e poi è un film estivo senza essere banale, riesce a essere drammatico, riflessivo e anche comico. È anche un viaggio da Roma verso Livorno, che è interessante anche per il tipo di musica che abbiamo affrontato. C’è da aggiungere anche che sottolinea l’impegno e lo sforzo che abbiamo fatto in questo passo rispetto a noi stessi, che poi è un sorpasso: ci siamo misurati, abbiamo provato a uscire da casa.

honolulu-sinfonico

Avete parlato di estate. Non avete pensato che potesse essere un azzardo fare uscire un disco che è prevalentemente solare ed estivo in pieno autunno? O avete puntato sull’effetto nostalgia per l’estate?

Il singolo Fra cent’anni è uscito a giugno, all’inizio dell’estate, e cercava di anticipare un po’ il disco che sarebbe arrivato ad ottobre. Quello ci ha comunque permesso di girare l’Italia per tutta estate, rimanendo nell’ideologia della rivisitazione dei brani in inglese. Però è da lì che iniziava il cambiamento. Il pensiero c’è stato, ma non siamo stati totalmente padroni dei nostri tempi, alla fine funziona così, non sempre ti dai una data e alla fine la rispetti. Va detto che il disco ha sicuramente questo lato estivo e solare, però non è l’unica ed esclusiva sonorità ed ispirazione. Sicuramente dà molta importanza al tema del tempo, che è ricorrente nelle canzoni. L’estate, il calore e il sole sono sicuramente privilegiati, però ci si sentono anche dei tratti di autunno e di primavera, per esempio in Apnea si parla di allergia. E comunque l’estate è molto più bella ricordata d’autunno che vissuta al momento.

Il disco è molto vario, per esempio uno dei brani che più mi ha colpito è Neanche un minuto, caratterizzato da una battuta lenta, molto particolare. Potete raccontarci qualcosa su quella canzone?

È stato un processo lunghissimo, è una canzone che si è trasformata, è nata diversissima poi è stata cambiata la musica, poi il testo, poi di nuovo la musica, poi il ritmo e alla fine miracolosamente è uscita così. Il testo è frutto della collaborazione tra il nostro Luca Guidi e Giulia Marchionne, una paroliera molto brava. L’ispirazione viene da un suo concetto, l’idea di confrontarsi con chi è sempre in grado di superare tutte le situazioni, dimostra una forza quasi incomprensibile nel dirigere la vita invece di subirla. Al tempo stesso però è bella anche la debolezza, se significa umanità. Per quanto invece riguarda le trasformazioni musicali, sono dovute al nostro produttore Alessandro Bavo, che ha fatto un lavoro preziosissimo su tutto il disco.

Le canzoni sono nate in studio con lui o avevate già pronto qualcosa?

Il processo è stato molto lungo perché dovevamo studiarci e annusarci, quindi ci siamo presi la briga di scrivere canzoni per conto nostro, qualcosa insieme, e poi portare tutto in studio per fare una pre-produzione che desse un colore globale alle canzoni in modo che avessero un colore uniformato già prima di farle ascoltare ad Alessandro. Ci siamo riusciti, gli abbiamo fatto sentire 18-20 provini, lui ne ha inquadrati 10-12 intorno ai quali vedeva un disco ben centrato. Poi c’è stato un ulteriore step di evoluzione assieme a lui: per noi era importante avere un elemento esterno, con anche il suo bagaglio di esperienza e il suo gusto, che potesse dirigere il tutto, perché un’orchestra di nove-dieci elementi non è facile da gestire. Era fondamentale che ci fosse qualcuno che dettasse legge, qualcuno di cui fidarsi. Alla fine ogni idea può essere giusta o sbagliata, per arrivare a un dunque ci vuole un esterno, o comunque è più facile arrivarci con un esterno.

Sinfonico Honolulu – il sorpasso: il teaser

Come vi vedete nel contesto della musica italiana, visto che siete un unicum? Vi trovate bene sia nei rock club che nei teatri o preferite una delle due situazioni? A quale pubblico cercate di rivolgervi?

Possiamo proporci a pubblici diversi, anche perché siamo una bella squadra con una certa versatilità. Per esempio ieri abbiamo suonato al Diavolo Rosso, che è una chiesa sconsacrata ed è assimilabile a un teatro, con la gente seduta in penombra, in silenzio ad ascoltare. In quei casi puntiamo più sulla teatralità e sui pezzi più cantautorali, per esempio ieri Vecchio frac ha ottenuto un gran successo. In situazioni come quelle di stasera al Magnolia, dove invece ci sono i pischelli che pogano, facciamo una cosa più energica, pigiamo di più sulle corde. Siamo abbastanza abituati a pubblici diversi, con il nostro repertorio di partenza abbiamo visto ballare i bambini di tre anni così come gli anziani. La sfida è cercare di capire dove possono arrivare le nostre canzoni, questo è un po’ un enigma anche per noi. I risultati iniziano a farsi vedere: chi era abituato a sentire brani punk o beat o reggae rifatti con l’ukulele all’inizio era rimasto un po’ schifato dalla nostra svolta, in realtà queste persone vanno educate e non solo si abituano ma anzi si rendono conto che averci criticato era un errore, perché il nostro rimane un bello spettacolo. A un certo punto la svolta è stata una necessità vitale per la sopravvivenza della band: essere una cover band è stato utile per capire le possibilità di noi insieme, dello strumento. Capito questo ben venga un allargamento, altrimenti la durata del progetto sarebbe rimasta circoscritta.

C’è qualche gruppo o artista di ukulele a cui vi ispirate, e sopratutto in quale ambito? Per fare degli esempi, l’Ukulele Orchestra of Great Britain, gli hawaiani come Israel Kamakiwiwo’ole o anche cantautori surf come Xavier Rudd o Jack Johnson?

Il nostro progetto è nato prima di quella che è stata la moda dell’ukulele, quindi il riferimento era l’unica orchestra che c’era, cioè l’Ukulele Orchestra of Great Britain. Poi qualcuno lo usava, ad esempio Rino Gaetano, ma se usi lo strumento all’interno di un gruppo variegato non ha certo lo stesso peso. Il primo riferimento più specifico quindi è stato quello dell’Orchestra. Quello che abbiamo cercato di evitare e l’utilizzo dell’ukulele più come abbellimento che come strumento, dato che è caratteristico dal punto di vista visivo. Abbiamo evitato l’aspetto visuale e invece cercato di sfruttare tutte le possibilità dello strumentino, uscendo anche dai cliché sonori.

I vostri progetti quindi quali sono?

Suonare l’ukulele il più possibile. Visto che ci siamo accorti che piace, deborderemo e faremo 5 o 6 dischi all’anno! O forse ci limiteremo a goderci l’incantesimo che si crea durante un concerto, vedere cosa succede dentro di noi a crearlo con canzoni nostre e vedere anche cosa succede al pubblico, sperando di scorgere soddisfazione sui volti di chi ascolta quello che abbiamo scritto e suonato.

Sinfonico Honolulu – Livorno (Piero Ciampi)

Sinfonico Honolulu in rete

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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