Fa seguito all’omonimo lavoro di pochi mesi fa, questa seconda parte di Hexadic, l’esperimento svolto sui principi della composizione musicale, ideato da un Ben Chasny che sempre in rotta con la regolarità, applica al pentagramma un complesso sistema basato sulla combinazione di sei carte da poker, nel tentativo di creare un metodo che travalicando i confini disciplinari, avvicini suono, immagine, testo ed aleatorietà.
Se nel primo volume questo ha dato vita ad una bolgia psycho-improv prossima al noise vero e proprio, qui è il lato più sospeso, notturno, desertico e/o bucolico della sigla a venir fuori, facendone di fatto il corrispettivo a spina staccata dell’album gemello. E di quest’ultimo raccoglie onori ed oneri, essendo anch’esso più un saggio sui limiti del concetto di sperimentazione applicata, di psichedelia, di avant folk/rock, che non un disco compiuto.
Tutto in Hexadic II è affidato ai timbri metallici delle sei corde: pizzicate, arpeggiate, carezzate, affidate a note sparute, accostate l’una all’altra con disinvolta indolenza ed apparente casualità. Intorno è tutta un’apparizione di voci soffocate, di fantasmi vocali resi ancora più spettrali da filtri e mixaggio, e poco altro: un harmonium, archi (sul finale), risonanze, riverberi. E’ facile perdersi tra le spire di questi brani che, nella successione, formano una coltre slabbrata ma solida, dalla quale non è opportuna alcuna distinzione, anzi è nella sostanziale monotonia e nella sfacciata inconsistenza che il lavoro pare, nello scorrere dei minuti, trovare la sua sostanziale ragion d’essere. Non si trovano canzoni qui, non fosse per la bella e caracollante Wasp Code, ma schizzi, brevi e brevissime tracce o accenni volti a comporre una nenia senza soluzione di continuità che unisce Popol Vuh, Jerry Garcia, magari anche Derek Bailey, ad un desolato fado dell’oltretomba. Il percorso ad occhi bassi e battiti rallentati di una musica che sembra esistere solo per se stessa, che pare neanche volerlo qualcuno ad ascoltarla.
Quella che è in scena, insomma, è l’anima più autentica di Chasny, quella più disordinata e sperimentale (se si vuole), quella più freak e solitaria, quella che forse troppo presto si è creduto addomesticata.