Il Teatro alle Tese, nel complesso dell’Arsenale, è noto per la sua mobilità combinatoria. Uno spazio perfetto per accogliere l’illuminotecnica creativa di Theresa Baumgartner, artista devota alla sperimentazione audiovisuale, le cui caratteristiche partecipano in egual misura di elementi concettuali e qualità sensoriali, se si considera l’approccio immersivo che la fondatrice del collettivo femminile Bestfilmsforever/BFF assegna alle sue invenzioni nel campo del design di spazi attraverso la luce.
Si entra in quello attaccato all’area drink senza soluzione di continuità, al netto del sipario che divide le due zone, perché il gioco di luci lancia già alcune sollecitazioni prima dell’ingresso effettivo.
Entriamo a mezz’ora dall’inizio dello show allestito dal collettivo pluridisciplinare Sonic Acts, definizione assolutamente calzante, quella dell’intreccio tra diversi linguaggi che caratterizzerà la nottata di sintesi allestita per la Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti, vera e propria festa intorno ai nuovi artisti veicolati dalla storica fucina olandese.
E dentro è già viva una parte consistente della narrazione.
Le luci di Baumgartner riscrivono lo spazio e lo rendono percorribile nella direzione di un’esperienza virtuale a trecentosessanta gradi, dove la direzione dello sguardo è possibile e mai necessariamente frontale. Almeno quattro i punti dove si dovranno presumibilmente esibire i performer, ma nel corso della serata, questi elementi fissi creeranno una sinestesia mutante mai stabile, a tratti spiazzante, tra corpi, suoni e illusioni.
Dal limbo di fumo e proiezioni che tagliano, o al contrario, espandono, l’esperienza del club inventandosi una versione ibrida e transgenerica, emerge per primo Snufkin, per aprire un’ellisse ideale tra due forme di Djing insieme a Soft Break, che chiuderà l’intensa nottata. Entrambi condividono la posizione sopraelevata, stabilendo una relazione apparentemente più tradizionale con il dancefloor, ma in realtà attivando la relazione di scambio tra luce e suono che caratterizzerà tutto lo show, anche per gli episodi più radicalmente performativi.
S280F è la prima performance che cerca una relazione diretta con il pubblico, contaminato con lo spirito del teatro contemporaneo, il segmento materializza una creatura mutante che sembra provenire dal cyberpunk e dalla fantascienza distopica. Stracci e maschera con la foggia di una calotta cerebrale, caratterizzano un’esperienza dolente che si svolge in mezzo al dancefloor, vicino ad un tavolo circondato dal pubblico dove un laptop consente il controllo di alcuni campioni, preset e combinazioni sonore vicine all’idea di epic collage, una delle influenze più evidenti durante tutta la nottata, grazie ad un fil rouge che attraversa set radicalmente diversi, dove l’elemento cinematico diventa il collante che tiene insieme questa realtà alternativa in cui siamo tutti immersi.
Ma è il lavoro del corpo, i sensori e il microfono a caratterizzare l’intensità dello show di S280F, con una furia che diventa improvvisamente hardcore estremo, techno violentissima, con alcuni inserti tribali che sembrano provenire da culti remoti, avanti e indietro nello spazio-tempo.
L’effetto sorpresa spiazza un pubblico eterogeneo, che può ballare oppure decidere se e come farsi aggredire da questo corpo che vaga come un monaco o una creatura mutante nello spazio metamorfico delle luci. C’è qualcosa di apolide in questa stratificazione tra visuale, performativo e aurale, che ricorda alcune esperienze coeve tra le più estreme, provenienti dall’Africa. In termini percettivi diventa arduo comprendere da dove arrivino i suoni, tanto è vitalmente confusa la loro provenienza, tra urgenza organica e rielaborazione di sintesi.
Fuori da ogni logica binaria il dialogo tra AYA ed MFO. Lə performer trans, già conosciuta con il moniker di LOFT e attivə su Hyperdub, concentra un distillato di cultura londinese, dal punk alla drum and bass, con una propensione per le forme della sintesi analogica e una furia performativa ormai sempre più rara. É uno show tra suono e corpo, grazie alla fisicità estrema che si verifica nei passaggi liquidi da un outfit all’altro.
Si rivolge spesso contro il pubblico: “smettetela di sessualizzare le persone trans!”. Nella ricerca di un contatto mai riconciliato, scende dal palco, avvicina il tuo volto, ti sollecita ad un confronto, invita alla danza furente e ad un certo punto avvicina uno scaleo piazzato ai margini del palco, in questo setting volutamente in progress come un palco sfondato in ogni direzione percettiva.
Dal pubblico porgono una sedia, per un equivoco che diventa gag e successivamente oggetto performativo. Cavalcata, scagliata e poi trampolino per scagliare il proprio corpo. Davvero il set più bello dell’intera serata e anche quello che sintetizza lo spirito Sonic Acts. MFO cura infatti tutto il design luminoso, rileggendo le intuizioni di Jonathan Barnbrook sul lettering in una dimensione dinamica e centrifuga. La scena si sfalda, riprende vita con una serie di statement trans-identitari, avvolge AYA in uno spazio liquido, oppure taglia lo stesso insieme all’indomita energia punk che attraversa tutto il set di questə straordinariə performer, dove la luce diventa parola, la parola decostruita suono parcellizzato dalla sintesi granulare.
Stabilire quindi i confini tra corpo e intelligenza macchinica, Ableton live ed effetti analogici in bella vista, oppure separare la messa in scena di simulacri rispetto all’improvvisa e ribollente azione fisica, diventa un esercizio critico inutile di fronte al vortice di senso che emerge e ci immerge.
Altra identità fluida e di transito quella di Emme, la cui performance si avvicina moltissimo a quella di S280F. Creaturə dormiente in uno strano giaciglio che simula una culla gigantesca, un letto a baldacchino, lo spazio rituale di passaggio tanto amato da Angela Carter, nelle sue decostruzioni della tradizione popolare e fiabesca. Epic collage, nell’accezione contaminata tra cultura sonora cinematografica ed elementi sonori che procedono dall’industrial fino all’hardcore e alle declinazioni più estreme del clubbing, è la caratteristica che traina tutto lo show. Letteralmente perché la narrazione non é frontale, ma penetra lo spazio condiviso, trascinando il lungo filo che consente allə performer di tenere in mano un microfono su modello AKG che consente una relazione diretta tra i campioni sonori e l’uso indifferenziato di voce e corpo, distorti con la saturazione di pitch e volumi.
Il filo separa lo spazio di fruizione, lo rende instabile e pericoloso. E il pubblico si allontana oppure si fa avvicinare dai sussulti di questə creaturə, ormai diretta verso l’esterno, seguita dal lavoro di scultura luminosa che consente a tutti di allontanarsi dai volumi estremi e farsi investire da un cono di luce, da un led che segue i battiti o dal taglio di una proiezione che confonde i nostri limiti percettivi.
Prima dell’ultimo Dj set che chiude i mondi possibili e si apre verso la danza, tocca a Yen Tech aprire lo spazio virtuale e dalle luci lattiginose che caratterizzerà tutto il suo show. L’artista di Chicago, mette da parte l’immaginario del gaming coevo e il cyberpunk ispirato a Tsukamoto che attraversa i suoi videoclip, per agevolare un approccio più vicino allo spirito delle colonne sonore videoludiche. L’iconografia della pop star, con le sue posture stilizzate e l’ego di un semidio agevolato dall’effetto controluce, fanno parte di un gioco linguistico che qui si protrae per tutta la durata del suo show.
C’è una dimensione eco-militante, che a tratti emerge nella devastazione psichica e fisica di un mal de vivre diffuso durante la nottata Sonic Acts. Ma invece dei relitti post-umani dentro l’esperienza bellica che sembrano emergere dalle performance di Emme e S280F, non ci sono quattro pareti da sfondare, paramenti da distruggere, trucchi scenici da disvelare. Yen Tech preferisce una dimensione scopica frontale, che diventa immersiva solo per il mondo di luci e fumo che esonda fuori dal palco e invade lo spazio del vedente.
I suoni sono quelli del metissage tra hip hop, chill e trap, riletti attraverso le suggestioni arcaiche della musica modale e del cantus firmus, quasi per alludere a quella dimensione oltremondana in cui ci siamo immersi per cinque bellissime ore, senza pause che non fossero quelle di un’esperienza improvvisamente erratica nello spazio disegnato dalle luci.