Steve Gunn ha scritto “Way Out Weather” durante un lungo anno di concerti in giro per il mondo, e rispetto alla sua uscita precedente allarga spettro e ambizioni della sua musica, impiegando una band molto più strutturata, costituita dal batterista John Truscinski, il basso di Justin Tripp, il banjo di Nathan Bowles, vero a proprio artista di paesaggi sonori, l’arpa di Mary Lattimore e l’ingegneria sonora di Justin Meagher.
La musica è apparentemente la stessa di Time Off, folk americano contaminato da un finger keeping riletto alla luce della psichedelia settantiana, in un’accezione molto larga, che passa dagli orientalismi blues dei Led Zeppelin fino al mantra-rock dei Grateful Dead.
Cambia la prospettiva, più solida e magniloquente e capace di incanalare il virtuosismo di Gunn in un contesto compatto e con un suono che riesce alla lunga nell’intento di risultare riconoscibile, nonostante il tentativo di infilare dentro di tutto, dai generi già citati fino ad influenze maliane, africane e persino dub.
Si prenda l’R&B di Milly’s Garden, agganciato ad un groove Stonesiano, riesce comunque ad inserire una deriva Byrdsiana dilatatissima, cosi come la sorprendente Fiction, cosmic-folk visionario e cristallino allo stesso tempo.
Sono i due estremi coalescenti di un virtuoso che utilizza la sovrapposizione di una moltitudine chitarristica per creare uno spettro sonoro di forte impatto ma allo stesso tempo chiaro e definibile nella separazione dei livelli che lo costituiscono, quello che sostanzialmente non interessa all’amico Kurt Vile, più orientato alla deriva infinita à la Neil Young.
La qualità di un brano come Drifter per esempio, è quella di un assalto folk-rock potente e conciso ma allo stesso tempo stratificatissimo quasi come se fosse una strana drone music costituita da elementi roots rock.
Una visione ampia che testimonia l’evoluzione di un artista di cui sentiremo parlare ancora a lungo e che nell’arte dell’arrangiamento trova una coesione e una riconoscibilità originale e rara.