giovedì, Novembre 21, 2024

Steve Lippman, l’incontro vitale tra musica e filmmaking: l’intervista

(Cover Image: Jorge Drexler: 2 Segundos de Oscuridad – film by Steve Lippman )

English Version

Non ho mai pensato al mio lavoro come a qualcosa di diverso dal fare film, o come mi piace chiamarli, cortometraggi musicali. Video musicali è semplicemente un termine commerciale che è diventato parte del linguaggio comune, legato al mercato“. Steven Lippman è un filmaker “raro”, se con questa parola intendiamo originale e creativo. È prima di tutto un artista; si muove liberamente tra le forme pop tradizionali e il linguaggio sperimentale, mescola forme visive e stili eterogenei per catturare lo spirito della musica e degli artisti che la producono. Il suo vasto curriculum include collaborazioni con musicisti come David Bowie (n.d.r. Leggi l’intervista a Steven Lippman sulla realizzazione di Reality film, con David Bowie) , Bette Midler, Esperanza Spalding, Laurie Anderson, Dolly Parton, Trixie Whitley, per nominarne alcuni. In questa conversazione esaustiva abbiamo parlato con il regista della sua carriera e del suo approccio all’arte di fare film.

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IE: Raccontami qualcosa sui tuoi inizi. Come ti sei avvicinato all’arte di fare film?

Ho un ricordo molto preciso che proviene dalla mia infanzia. Avevo probabilmente cinque o sei anni. La mia madrina era seduta con me sul divano e metteva su un po’ di musica classica. Non ricordo esattamente il brano, ma ricordo chiaramente che mi disse di chiudere gli occhi mentre mi sussurrava “dimmi che cosa vedi”. Non ricordo la risposta. Probabilmente mi sono immaginato qualcosa di semplice come il sole oppure i fiori, ma è stato il primo momento in cui ho combinato l’immaginazione con la musica. Il primo impulso creativo che ricordo. Ecco questo è l’inizio della mia connessione con il cinema, in un senso non strettamente ufficiale ovviamente.

Sono cresciuto in una casa dove c’erano molte colonne sonore di musical come “West Side Story,” “The Music Man,” e “The King & I.”  Ero solito ascoltare le canzoni e immaginarmi le scene prima ancora di avere la possibilità di vedermi i film a cui si riferivano. 

Ho maturato le mie competenze pratiche nel corso di una breve esperienza presso la Northwestern University, la maggior parte di esse attraverso il mio primo mentore, Jerry Haislmaier, che a Chicago era il responsabile dell’Encyclopedia Britannica Educational Films. È la prima persona ad avermi detto che avevo talento e che dovevo coltivarlo. Anche se è morto qualche tempo fa, penso molto spesso a lui e agli insegnamenti preziosi che ho appreso in quel periodo.

IE: La musica ha giocato un ruolo importante nella tua carriera, ma il tuo lavoro sembra avvicinarsi maggiormente al cinema sperimentale che ai video musicali più tradizionali. È stata una scelta precisa e intenzionale?

Non ho mai pensato al mio lavoro come a qualcosa di diverso dal fare film, o come mi piace chiamarli, cortometraggi musicali. Video musicali è semplicemente un termine commerciale che è diventato parte del linguaggio comune, legato al mercato. Il mio approccio è innanzitutto stimolato dall’artista e dalla sua musica. In alcuni casi non è sperimentale, come nel lavoro che ho svolto per Bette Midler. Non volevo addentrarmi nel suo modo di essere attrice e cantante. Non c’è modo di re-interpretare quel tipo di genio. Volevo solamente servirlo con l’illuminazione, le inquadrature, i movimenti o la camera fissa. Lei stessa raccontava già la storia. Allo stesso modo ho voluto mettere in risalto la purezza di artisti come Esperanza Spalding e k.d. lang con immagini dove le emozioni dei volti e il linguaggio del corpo erano il centro e la tela su cui lavorare. Certamente amo i lavori sperimentali e quelli definiscono una buona parte delle mie influenze, allo stesso modo so bene che quel trattamento non può essere garantito per qualsiasi lavoro. Non voglio limitarmi ad una sola cosa. Mi piace catturare l’intimità e l’immediatezza di un cantante, pur mantenendo una certa eleganza. Puoi vedere questo approccio nei lavori fatti per Bonnie Raitt, Rumer, e più recentemente, Valerie June. Bowie è stato l’unico artista con il quale ho potuto lavorare sfruttando entrambe le direzioni.

Esperanza Spalding: Little Fly

Esperanza Spalding: Little Fly, film by Steve Lippman

IE: Il tuo approccio alle performance live sembra molto diverso da quello che usualmente si vede in televisione. Per esempio, il tuo lavoro con Esperanza Spalding, ma anche l’uso che fai dei colori e dei riflessi…

Il lavoro con Esperanza ha un tocco subliminalmente sperimentale. Il direttore della fotografia, Shane Sigler, ha usato deliberatamente alcune lenti danneggiate su alcuni take, in modo da spezzare l’immagine in una forma tripartita, ognuna con diverse proprietà legate ai colori primari. Tutto questo era “in camera”. I bagliori dei colori e i riflessi sono stati effettivamente girati separatamente e in forma artigianale sperimentando con la luce che attraversava alcuni oggetti di vetro. Ho poi sovrapposto questo con le immagini performative, girate quasi interamente in un limbo nero. Il risultato finale lo si può definire come ingannevolmente organico. Sembra che sia stato realizzato su un set, ma è stato in realtà controllato in fase di montaggio.

IE: Usi spesso il Super 8mm nei tuoi lavori. Cosa ti attrae di questo formato? 

Il Super 8mm ha il sentore della memoria. Ha una qualità senza tempo. Potrebbe essere stato girato oggi o qualche decennio fa. 

IE: Sembra che tu stia esplorando un linguaggio con reminiscenze surrealiste e legate al cinema d’avanguardia, sopratutto quando utilizzi la pellicola. Preferisci questa, il digitale o una combinazione tra i due supporti?

Istintivamente e alla prima, la mia preferenza è nei confronti della pellicola, specialmente il Super 8, anche se non è sempre possibile con alcuni lavori recenti che mi sono stati commissionati. Non è una questione di budget in realtà, ma più che altro legata al tempo e alle scadenze di post-produzione, anche se la situazione potrebbe cambiare con l’apertura del  KodakLabNYC nel 2017. Inoltre è decisamente snervante per alcuni clienti aspettare per vedere come sono venute le scene, ma la percezione potrebbe cambiare con le nuove Kodak Super 8mm che implementano mirini LED e uscite HDMI per il monitoraggio immediato su set. In ogni caso, il mio metodo di ripresa è così istintivo e non sempre accade in un ambiente controllato, per questo ci sarà sempre quel senso di rischio, come se si camminasse su una corda tesa; è la percezione di un atto di fede. 

Grazie al cielo, ho recentemente realizzato lavori per artisti come Trixie Whitley, Silje Nergaard e Bonnie Raitt che sono stati girati su pellicola senza alcuna preoccupazione.

Mi piace il digitale per le performance live, principalmente per facilità e immediatezza. C’è un grande vantaggio nel catturare quell’energia che altrimenti potrebbe risultare effimera. Troppa distanza tra i takes può appunto dissiparla. Allo stesso tempo è importante per me non adagiarmi nella possibilità che il digitale offre quando si registrano troppi takes. Ho l’impulso a fermarmi che arriva dall’esperienza di lavoro con la pellicola, dove puoi averne a disposizione solamente una quantità limitata. In un progetto recente ho girato troppo materiale digitale. Come montatore, volevo arrabbiarmi col il me stesso regista. Preferisco un rapporto quantitativamente più basso con il girato. 

IE: Un bellissimo esempio del tuo lavoro con il Super 8mm è  “Unclouded” realizzato per Silje Nergaard. Hai filmato nella città di Oslo. L’acqua e l’ambiente naturale hanno contribuito a creare un’immagine che è maggiormente vicina alla poesia piuttosto che al racconto. Puoi raccontarci qualcosa in particolare su questo lavoro?

Silje era mia amica da un po’ e l’ho incontrata dopo averle scritto il mio sincero apprezzamento per quello che credo sia il suo album della svolta:  “At First Light”. Qualche anno prima di realizzare il film, ho alloggiato nella sua abitazione di Oslo, durante alcuni miei spostamenti europei. Dal suo balcone, si può ammirare la vista più bella del cielo Nordico al tramonto, così come l’acqua. C’era quindi già un imprinting mentale, anche se limitato, di quelli che erano gli ambienti e i colori di Oslo. Quando sono tornato per girare ho esplorato la Oslo che non conoscevo. In Novegia Silje Nergaard è un’icona popolare e culturale, abbiamo approfittato del suo status e ottenuto possibilità istantanee, come se realizzassimo furiosamente del vero e proprio guerrilla filmaking, anche se in ultima analisi, è del tutto contemplativo e onirico nel risultato finale. Ho lavorato con Cecile Ravel alla direzione della fotografia, artista stanziata in Francia, abituata a lavorare usualmente con il Super 8mm, una collaboratrice davvero enorme.  Il film ha preso forma durante il montaggio. Inizialmente avevo pensato di includere la performance sincronizzata di un paio di canzoni e di alcune conversazioni, ma quando ho visto il girato, ho pensato di utilizzare brani differenti insieme al girato, originariamente pensato per altre canzoni. Anche la parte parlata è stata abbandonata. La canzone che ho utilizzato alla fine ha una narrativa folk, e la sentivo perfettamente connessa con la qualità ultraterrena delle immagini che stavo creando. In un certo senso si è trattato della reazione di un Newyorchese all’esperienza di Oslo.  Il film riguardava anche il disorientamento e l’impotenza a causa di una perdita. Silje è un attivista molto impegnata nel sociale e stava protestando per l’imminente distruzione della foresta dove usualmente si recava per cercare ispirazione e per scrivere. Parte del film è stato girato in quel luogo per preservarne l’immagine. Per quanto mi riguarda stavo attraversando ed elaborando un dolore personale. È stata molto generosa a lasciarmi esprimere attraverso la sua musica, in un modo così intimo.

Silje Nergaard: Unclouded

Silje Nergaard: Unclouded, film by Steve Lippman

IE: Uno dei tuoi primi film concettuali è “Life on  a String” realizzato per Laurie Anderson. Ha una struttura narrativa che sembra simile ad uno dei tuoi lavori successivi, quello realizzato per Carly Simon, anche se più sperimentale e sinestetico. Puoi raccontarci il tuo lavoro con Laurie Anderson; come hai interagito con lei per lo sviluppo del concept?

La struttura di “Life on a String” è arrivata per caso. L’intento originale era quello di creare un EPK per l’album di Laurie Anderson dallo stesso titolo. L’ho incontrata insieme a  David Bither, il suo contatto A&R presso la Nonesuch Records.  In quell’occasione Laurie finse di non sapere di cosa stavamo parlando e chiese cosa fosse un EPK e quando fu definito il concetto rispose che non era interessata a spiegare la sua musica. David intervenne: “Lo so, faremo un anti-EPK!” 

Questo pose le basi per una background nero e per creare esattamente quello che volevamo. Suggerii che avremmo usato solamente alcuni frammenti dall’album e che avremmo utilizzato per la precisione un collage da cinque brani differenti. Il lavoro non è cambiato da quella prima impostazione.

Inizialmente ero intimorito dal lavoro con Laurie, non per qualcosa che ha detto o fatto, ma per la sua statura come artista multimediale. Era la mia insicurezza e la volontà di essere al livello del suo lavoro. Quando mi sono rilassato pensando al fatto che ero stato invitato ad occuparmene, sono riuscito ad affrontare il tutto. Laurie e la Nonesuch sono stati davvero generosi nel permettermi di fare quello che volevo, sempre all’interno del budget stabilito. 

La maggior parte del film è stato girato e montato senza la presenza di Laurie. Lo amava per come era e non pensava alla sua presenza sullo schermo come una cosa necessaria, ma l’abbiamo convinta. Siamo quindi tornati in studio per girare tutte le immagini con lei, inclusa la proiezione del film montato sul suo volto e altre textures visive. Abbiamo anche filmato alcuni modelli in miniatura. Tutto questo è stato inserito e nuovamente abbinato con il final cut.

Non è stata solamente splendida durante le riprese, ma anche molto generosa con me. Quando il film è stato presentato in alcuni festival di alto livello, il primo dei quali era la Berlinale, ha fatto un passo indietro e mi ha lasciato presentare il film. Anche se non ne abbiamo mai discusso in modo diretto, penso che fosse il suo modo di lasciarmi spazio, sapendo che se lo avesse condiviso, il pubblico avrebbe potuto immaginare che quel film fosse stato diretto e concepito da lei, considerata la sua eredità e influenza. 

“Life on a String” ha in qualche modo stabilito una forma che trovo eccitante. Quando abbiamo lavorato per il circuito dei festival, l’ho chiamato “cortometraggio musicale”, e quel termine è rimasto.  Ho usato strutture simili per  “Fan Dance” realizzato con Sam Phillips, “Tiny Voices” con Joe Henry, and “2 Segundos de Oscuridad” realizzato insieme a Jorge Drexler. “Tiny Voices,” insieme a “Reality” girato con David Bowie, è stato il primo dei miei film dove ho utilizzato la parola parlata. Le parole sono state decostruite, usate ritmicamente e in modo evocativo. La musica emerge in modo organico dal dialogo. 

“Into White” con Carly Simon contiene un sogno ad occhi aperti di mezza estate in una struttura notturna, si concentra su 4 canzoni complete ed è una risposta al suo spirito aperto e all’ambiente mistico della sua tenuta situata sull’isola di Martha’s Vineyard, dove abbiamo filmato. L’intenzione originale era quella di tessere la parola parlata nel film, fino a quando mi sono servito di alcuni effetti naturali discreti e della sua musica. Ero sedotto dalla qualità delle nuove canzoni, la qualità era quella onirica dell’Alice di Lewis Carrol, e non volevo rompere l’incantesimo frammentandole. L’intero film è essenzialmente improvvisato e sviluppato nel corso di due giornate passate insieme a Carly; il risultato, anche in questo caso, è quello di un lavoro realizzato insieme ad un’artista davvero generosa.

Laurie Anderson: Life on a String

Laurie Anderson – Life on a String, film by Steve Lippman

IE: Per “Life on a String” hai collaborato con il direttore della fotografia Teodoro Maniaci. Hai lavorato con lui anche per Reality con David Bowie. Puoi dirci qualcosa su questa collaborazione?

Ho conosciuto Teo Maniaci grazie al contatto con alcuni colleghi quando mi è stato commissionato un lavoro per un artista classico, il pianista Fazil Say. Conoscevo il lavoro di Teo sul film “Clean, Shaven” (N.d.a. Film del 1994 diretto da Lodge Kerrigan) ed ero eccitato all’idea di poter lavorare con direttore della fotografia che non proveniva dal contesto commerciale. 
Mi sono sentito subito a mio agio con Teo, con la possibilità di fargli esempi che non suscitassero perplessità. Si diverte a infrangere le regole, il tutto miscelato con una professionalità innata. Abbiamo realizzato molte cose insieme, tra cui i film per Bowie, Bette Midler, k.d. lang. Rumer e più recentemente per Trixie Whitley.

È anche un viaggiatore instancabile, cosa che ci ha aiutato notevolmente quando abbiamo lavorato insieme per il breve documentario realizzato in Senegal per  Youssou N’Dour.

Rumer: Am I Forgiven?

Rumer: Am i Forgiven? film by Steve Lippman

IE: In alcuni dei tuoi lavori sembra tu abbia sviluppato un’idea di ritmo e musica attraverso immagini che ricordano il cinema di Germaine Dulac ma anche quello di Jean Epstein. Mi riferisco a  “Nuevo” con Kronos Quartet, “2 Segundos de Oscuridad” con Jorge Drexler, “Fan Dance” con Sam Phillips, and alcuni estratti da “Reality” e “Life on a String”. Puoi parlarci di questi lavori?

È una cosa del tutto istintiva, non è conscia. Con alcune eccezioni. Non realizzo storyboard, sopratutto per le cose più sperimentali. Ho un’idea, ma alla fine reagisco all’imprevisto che da forma a tutto il processo e al film stesso. Per esempio, per il film con Jorge Drexler, ad eccezione dei ritratti in primissimo piano, il resto è stato completamente improvvisato. Era la mia prima volta a Madrid, come per il mio direttore della fotografia e per il produttore che mi seguivano da New York. Ogni volta c’era un senso profondo di scoperta. Il film per il Kronos Quartet è stato girato in Super 8mm, ricavato dal montaggio di alcuni frammenti scelti da una serie di film famigliari che un mia amica aveva acquisito dalle frequenti visite di suo padre nel Messico degli anni sessanta.  

Mi sono imbattuto davvero per caso in quei filmati proprio mentre stavo girando “Nuevo.”  La mia amica mi ha consentito di usare quel girato e questo ha sicuramente dato una marcia in più al film.  Su “Fan Dance,” ho potuto sperimentare con una serie di lenti 35mm “del 1950, truccate, ridimensionate per l’utilizzo su cineprese Super 8mm, cosi da creare patterns e ritmi interni assolutamente inattesi.

Monto principalmente da solo i miei lavori. Per me il montaggio è una diretta estensione della regia. Allo stesso modo faccio la correzione colore da solo. Reagisco ritmicamente, sebbene non al livello del beat musicale più evidente, ma cercando un movimento sotterraneo. Questo è il solo e bizzarro talento musicale che riesco ad esprimere attraverso i miei film. A volte monto azzerando il sonoro, quando la struttura fondamentale è già costruita, in modo da lasciar cantare da sole, ritmo e palette delle immagini.

Dove utilizzo una tecnica di sovrapposizione, mi servo di due tagli lineari, ne stampo uno sull’altro per scoprire nuove textures e ritmi all’interno del fotogramma, così da mantenere quello che amo maggiormente. Questo riguarda tutti gli esempi che hai citato, oltre ai film realizzati per Trixie Whitley,  Silje Nergaard e parte di quello per Carly Simon.

Trixie Whitley: Never Enough

Trixie Whitley – Never Enough, film by Steve Lippman

IE: Il modo in cui filmi gli aspetti performativi è molto interessante. Sembra che l’immagine ricorrente sia quella del volto del performer filmato su uno schermo o su una tela, oppure illuminato all’interno di una vignetta, molto simile a quello che si poteva vedere nei primi Jazz films o nelle prime performance filmate da Leon Schlesinger per la serie delle “Spooney Melodies”. Davvero sembra che tu evidenzi l’allure di un performer nel tuo lavoro. Penso ai film realizzati per k.d. lang, Jane Monheit, David Bowie, Dolly Parton. Sono sempre avviluppati nella luce. Come mai questa distanza magica e irreale?   

Amo i mosical, specialmente quelli degli studios, ma anche i corti degli anni trenta e quaranta a cui ti riferisci. Ci sono questi close-up quasi ultraterreni su performer come Judy Garland, Lena Horne, ed è davvero ipnotico. Penso anche alla Streisand che canta “My Man” alla fine di “Funny Girl (1968), mentre indossa un vestito nero sullo sfondo di un limbo nero dove il fuoco è sul volto e l’espressività delle mani. La palette viene spezzata solo dall’emersione dei colori generati dalle luci del palco, quando la camera comincia a muoversi intorno grazie ai dolly. Apparentemente semplice, ma anche viscerale e intenso. Oggi è difficile immaginarsi l’impatto generato da una cosa simile mentre sei seduto in una sala cinematografica, difficile immaginarsi close-up colossali come questi. Immagino ancora la potenza di quella scala dimensionale, anche quando i film me li guardo a casa. Del resto, la mia esperienza formativa in termini cinematografici è quella del cinema degli anni settanta, precedente all’esplosione dell’home video, per questo penso ancora nei termini di uno schermo gigante e all’impatto di un primissimo piano. Adoro Bergman. Tutto questo è probabilmente combinato in modo pulsionale. 

Quando ho lavorato con artisti come Bowie, o per dire, Dolly Parton, c’era già una forma di magnetismo da affrontare in termini creativi. Jane Monheit poteva tranquillamente canalizzare lo spirito dei musical della MGM nelle sue performance. Ecco perchè ho voluto in qualche modo elaborare l’immagine di questi performer come quella delle star del cinema classico. Non ha senso nascondere tutto questo nell’ombra.

Jane Monheit: Some Other Time

Jane Monheit: Some Other Time, film by Steve Lippman

IE: Per il lavoro con Bette Midler intitolato “The Folks Who Live on the Hill” hai selezionato alcuni dei film di famiglia di Peggy Lee. Come sei arrivato a questo materiale?

È una sezione realizzata per un film più lungo che ho realizzato per il suo album “Bette Midler Sings The Peggy Lee Songbook.” Prima di esser parte del progetto, l’etichetta aveva già contattato Holly Foster Wells, la nipote di Peggy Lee. È stata lei a garantire l’accesso ai film di famiglia, materiale mai visto prima. L’idea predisposta credo fosse quella di intervallare questi frammenti per tutto il film. Abbiamo filmato alcune interviste con Bette, Holly e sua madre Nikki Lee Foster, ovvero la figlia di Peggy Lee, oltre a quattro performance registrate con Bette Midler, presso lo Studio A della Capitol Records, lo stesso dove Peggy Lee aveva originariamente registrato le sue canzoni. Non siamo riusciti a filmare la registrazione di Bette mentre eseguiva “Folks Who live on the hill”, ma non riuscivo a togliermi dalla mente la sua esecuzione, per questo ho cominciato a giocare con i film famigliari sulla canzone e il risultato è questa esperienza autosufficiente. Le immagini erano davvero incredibili, come entrare dentro una porta dimensionale, un viaggio nel tempo. È stato un privilegio aver potuto lavorare con queste immagini così personali e intime. 

IE: La memoria e i ricordi sembrano un aspetto molto importante del tuo lavoro

Si, per me è come connettere il passato con il  presente. 

IE: Dal mio punto di vista, uno dei tuoi lavori più riusciti è quello che hai realizzato per Rhys Chatham. Come è possibile leggere nelle note che hai pubblicato per accompagnare  “A Crimson Grail” , l’obiettivo visivo era quello di realizzare un’esplorazione delle qualità tattili del Super 8mm. Puoi spiegare meglio il concetto?

È stato come creare un’elegia per la Kodachrome Super 8mm. Nonesuch Records aveva bisogno di un promo per una registrazione di “A Crimson Grail” ed erano nuovamente disposti a darmi carta bianca. Era il periodo in cui l’unico laboratorio che negli Stati Uniti sviluppava la Kodachrome, avrebbe chiuso per una serie di questioni. A quel punto ho comprato una serie di rullini vergini e scaduti della Kodachrome attraverso EBay, cosa che avevo già fatto in precedenza per una parte del lavoro svolto con Jorge Drexler.  Il risultato è stato del tutto inatteso ed eccitante. Il rischio di girare con pellicola scaduta è altissimo, talvolta non si ottiene niente, proprio per questo ho aggiunto alcuni rullini a colori e in bianconero della Ektachrome, come back-up di sicurezza.  Il budget era davvero minimo, quindi mi sono limitato a 9 rullini in totale in forma di sfida e sperimentazione. Ho filmato le textures luminose nel mio studio casalingo, nella stessa forma sperimentata per gli effetti luminosi utilizzati nel film con Esperanza Spalding e in quello con Valerie June. Ancora una volta, musicalmente, ho creato la struttura più lunga per accogliere la parte audio, mentre il resto era una sperimentazione con textures, ritmi visivi interni, tutti realizzati in fase di montaggio. Ho utilizzato numerose tecniche digitali per modificare le proprietà del colore, oltre alla sua densità, per mantenere un risultato organico. Quello che volevo era filtrare il processo chimico della pellicola, attraverso il mondo digitale. 

Rhys Chatham: A Crimson Grail

Rhys Chatham: A Crimson Grail, film by Steve Lippman

IE: Errori e difetti organici della pellicola, sembrano quindi molto importanti per te. Il digitale ti offre le stesse possibilità? 

Adoro gli errori. Anche quando cerco di crearli occasionalmente, sono sempre questi, nel processo creativo, che per me funzionano molto bene.

Il digitale non offre lo stesso risultato e certamente si perde la bellezza naturale degli errori. Con il digitale, in ogni caso, trovo e abbraccio errori di natura differente. Recentemente ho comprato un set di lenti macro per il mio IPad e mi sono divertito cercando di utilizzarle nel modo sbagliato, cosi da creare bellissime textures impressioniste. Stavo per utilizzare questa tecnica per una video proiezione destinata ad un concerto che mi era stata commissionata. Sfortunatamente l’evento è stato cancellato, ma questo mi ha consentito comunque di sperimentare alcune textures e di testarne le possibilità. Ho utilizzato questo metodo recentissimamente per l’ultimo video di Valerie June, per alcune immagini in particolare

Valerie June – Shakedown, official Video

IE: Per  “Mariners & Musicians” realizzato con Rosanne Cash, hai inventato un mosaico narrativo intorno ad un auto ritratto personale, usando numerose e diverse tecniche. In un certo senso il film è un interessante ibrido tra la forma documentaria e il romanzo epistolare. Puoi parlarci di questo progetto in particolare e perché hai scelto tecniche differenti e sopratutto strumenti differenti (8mm, 16mm, animazione) per raccontare la storia di Rosanne Cash?

Come molti miei progetti, tutto è cominciato con un primo contatto, esprimendo l’ammirazione per il suo lavoro e in seguito il desiderio di lavorare con lei.

Rosanne Cash si è dimostrata assai ricettiva, e questo si è presto evoluto nella pianificazione di un film per il suo nuovo album di allora, intitolato “Black Cadillac”, una risposta alla recente morte di suo padre (n.d.a. Johnny Cash) e quella della sua matrigna. Finite le registrazioni, è morta anche sua madre. Per questi motivi c’è stato un ritardo nella realizzazione dell’album, per lasciarle il tempo necessario per elaborare e per aggiungere una canzone. Un periodo molto lungo di gestazione; la vita in qualche modo continuava a guidare e plasmare il film prima ancora che fosse girato. 

Dico questo perchè mentre molto del lavoro è stato concepito nel periodo della perdita e del dolore, l’impeto per il film non era quello. Non importa quando avrei trovato Rosanne, ci sarebbe comunque stato qualcosa di interessante e di empatico. Semplicemente è accaduto di conoscerla e incontrarla in questo periodo della sua vita. 

Il ritratto in forma di mosaico, devo ammetterlo, è il mio “metodo” preferito, e le opportunità per fare questo sono rarissime. L’ho fatto recentemente con un lavoro poco visto con Rumer, realizzato per il suo album  “Into Colour,” ma il film con Rosanne non ha quello stile documentario che attraversa quello per Rumer, anche se condivide la stessa intimità e lo stesso candore.

“Mariners” è un’esperienza organica assolutamente unica. Ogni cosa è nuova ed è al servizio del film stesso, con l’eccezione delle canzoni che provengono dall’album di Rosanne, utilizzate comunque in un modo del tutto nuovo. Non ero sicuro quali brani avrei incluso prima del montaggio. Sono state le conversazioni con lei a guidarmi. Solo la sua recitazione all’inizio del film, filmata con un close-up, e successivamente la versione a cappella di “The Good Intent” all’interno del faro dove avevamo progettato di filmare l’ultima immagine. 

Non so cosa mi ha ispirato a scegliere differenti formati, oltre a questo progetto, lo avevo fatto sul film per David Bowie e forse stavo cercando nuovamente una sfida da superare. L’animazione stop motion è stata realizzata dagli artisti Louviere + Vanessa. Creata con miniature filmate con una Holga 35mm. Quella sequenza rappresenta il naufragio di una nave nel 1839, qualcosa che arriva da un pianeta completamente diverso rispetto alla realtà poetica e impressionista del film. Avevo visto alcuni dei loro lavori di animazione, e per sensibilità era proprio quello che stavo cercando.  Hanno lavorato con me una seconda volta per la sezione muta di “Better Get to Livin”, il film che ho realizzato con Dolly Parton

Per me la struttura a mosaico riflette il sentimento della memoria e le modalità con cui richiamiamo il passato attraverso il presente. Per esempio, se parli con qualcuno che ha una grande propensione per i dettagli e le storie, c’è sempre un momento in cui ti dirà: “cavolo, ho dimenticato di aggiungere questa cosa importante”. C’è quindi un’idea di base, qualcosa di cruciale, anche un sogno, ma nel racconto, i dettagli e la cronologia sono normalmente frammentati ad un certo livello. Per questo motivo sposo questa idea durante il processo creativo e il risultato finale. Trovo quindi associazioni inattese nella giustapposizione di immagini, colori, textures, che legano le cose insieme. 

In “Mariners” per esempio, abbiamo filmato alcuni dettagli e le textures nella casa vuota dei genitori di Rosanne, in Tennesse. Un paio di settimane più tardi, ci siamo trovati per filmare la conversazione nella casa newyorchese di Rosanne. In quell’occasione ci ha mostrato un pezzo di stoffa che aveva recentemente trovato in un mercatino delle pulci a Parigi. Qualcosa che aveva visto per caso e che le era piaciuto. Abbiamo filmato un’immagine fissa di quel tessuto, tra altri dettagli. Quando ho cominciato a organizzare il materiale girato per il montaggio, ho notato che il motivo su quel tessuto, era simile a quello della carta da parati nella camera dei suoi genitori. Attraverso questo gesto casuale che ha spinto Rosanne a comprare quel tessuto, il passato e il presente e altre vite diverse, si sono uniti. 
A chi era appartenuto quel tessuto? Perchè Rosanne Cash è passata per quel mercato parigino, ha comprato quel tessuto e ha deciso di portarlo a casa, pensando che potesse essere interessante farmelo filmare? E come mai il motivo di quel tessuto era identico alla carta da parati che i suoi genitori avevano comprato decenni prima? Rosanne si interroga allo stesso modo davanti alla macchina da presa, in relazione ad una vecchia cartolina trovata nello stesso mercato delle pulci, ma ho trovato da solo e in un secondo momento la connessione con il tessuto. Sono maggiormente stimolato dalle domande che dalle risposte. C’è molta più potenza nelle domande.

Così come in  “Mariners,” guido sempre le conversazioni filmate, talvolta puoi sentire la mia voce in modo sottile, nel mix audio finale, come se fosse un mormorio non verbale, mentre il mio cervello simultaneamente registra e trattiene parti di un discorso, frasi, parole, reazioni.  Sperimento la sensazione di alcuni temi che emergono e a guidarmi è una sorta di radar emozionale. Non manipolo niente per far si che il soggetto dica qualcosa che non ha intenzione di dire, anche quando tutto questo assume una forma non lineare mediante il montaggio. Onoro sempre la verità del soggetto, o il personaggio che sta rappresentando, come nel caso di Joe Henry o di David Bowie. Questi ritratti sono i momenti di una vita, richiamano porzioni di vita, anche se immaginata. Rosanne ha definito “Mariners” come un poema dal tono cinematografico. 

Rosanne Cash: Mariners & Musicians

Rosanne Cash: Mariners & Musicians, film by Steve Lippman

IE: I tuoi film secondo me, ricordano in qualche modo la pittura. L’uso del colore, i riflessi, mi hanno fatto pensare all’opera di David Hockney. C’è un’ispirazione particolare che guida i tuoi lavori?

La questione delle influenze e dell’ispirazione; ciò che mi consente di andare avanti è affrontare un lavoro che possa stimolarmi sul piano istintivo e anche a livello intellettuale. Certo, agli inizi ero più consciamente soggetto a recepire alcune influenze, perché non mi sentivo del tutto sicuro. Adesso mi sento del tutto immune dalla necessità di realizzare un omaggio. È possibile dire che il mio lavoro ricorda questa o un’altra cosa, ed è lusinghiero, ma non penso in quel modo. Prendo un’influenza e la uso per qualcosa di nuovo.

Guardo film e ascolto musica per la maggior parte del mio tempo. Mi piace osservare le persone nella vita di tutti i giorni, esperienza notevole a New York City. Frequento mostre d’arte e fotografiche meno di quanto vorrei, leggo sempre meno col passare del tempo, anche se mi piace leggere monografie su registi, musicisti, attori, sia in termini biografici, sia per quanto riguarda il processo creativo. Ma la mia tazza di te è scoprire e rivisitare cinema e musica. Lo scorso anno ho visto “Lions Love”, “Uncle Yanco” e gli altri film californiani di Agnes Varda. Sono stati una rivelazione. Credo che “Jane B. par Agnes V.” sia uno dei più grandi film-ritratto mai realizzati. “A Poem is a Naked Person” di Les Blank, il film con Leon Russell, trovo sia magnifico. Non c’è modo migliore per apprezzare fino in fondo questi film che vederli per la prima volta in questo periodo della mia vita. Mi ritengo fortunato ad avere una relazione solida con una persona che è altrettanto creativa e che vive intensamente cinema e musica in un modo simile al mio; il nostro tempo impiegato per guardare film insieme è un tempo assolutamente sacro. Per esempio abbiamo visto di recente i film di Robert Aldrich e li abbiamo trovati davvero emozionanti per audacia e crudeltà machista, molto lontani da qualsiasi cosa io faccia. È una spinta emozionale, essere stimolati da qualcosa che mi consenta comunque di pensare a ciò che ho intenzione di creare. 

IE: Cosa ti piace cosa non ti piace dell’industria coeva legata ai video musicali?

Non mi piace il modo in cui la mancanza di abilità e talento sia diventata peculiare. Viene incoraggiata semplicemente perché adesso è possibile farlo a buon mercato, ma non necessariamente bene. Gli standard si sono completamente abbassati durante questo processo.

L’altra cosa che non mi piace è il sistema competitivo. Sono autonomo, per questo sono raramente competitivo, eccetto quando mi viene offerta l’opportunità di coltivare un’idea. A quel punto voglio realizzarla a qualsiasi costo. Sono competitivo con me stesso nel desiderio di crescere e raggiungere uno standard. Forse l’unica volta che avrei voluto essere coinvolto in un certo modo è quando ho sentito “Cranes in the Sky” di Solange e ho cominciato a sognare. Non voglio dire che quello che è stato realizzato non sia bello, ma è qualcosa che avrei voluto interpretare.

Quello che mi piace è il fatto di non esser più costretti a seguire parametri imposti in termini di durata o di standard broadcast. Registi e musicisti possono sperimentare differenti durate, formati e piattaforme di diffusione. C’era un periodo, specialmente nei primi 2000, in cui venivano prodotti moltissimi contenuti extra per i CD Deluxe, aspetto che incoraggiava  l’esplosione della creatività in un modo molto simile al momento attuale. Per questa ragione Reality, il film che ho realizzato con David Bowie, è stato possibile.

IE: Progetti futuri?

Sono sempre eccitato dalla possibilità di lavorare con musicisti su nuovi progetti visuali e mi ritengo fortunato per aver lavorato con molti dei miei “eroi”. Ma credo ce ne siano ancora molti con cui posso collaborare. C’è molto da guadagnare dalle persone con esperienza che cercano di spingere la creatività verso qualcosa di nuovo, non importa in che termini. Questo ha a che fare con la fascinazione per il passato che influenza il presente, e naturalmente sono totalmente stimolato dai talenti della nuova generazione. Mi è piaciuto molto lavorare con Esperanza, Rumer, Trixie Whitley, e con Valerie June.

Tra le cose di cui vado davvero molto fiero c’è un lavoro che ho terminato due anni fa. Si intitola  “Behind the Lid.” È il film di uno spettacolo teatrale d’avanguardia creato da Basil Twist e Lee Nagrin. Abbiamo filmato in 16mm e lo abbiamo presentato al BAM (Brooklyn Academy of Music.) Istinto ed esperienza sono gli stessi impiegati per i film musicali, mi sono serviti per tradurre cinematicamente un’esperienza di natura teatrale.  Il film è un’elegia e un ricordo che arriva da Lee Nagrin, messo in scena e immaginato da Basil.  La parte live è una fantasia che spazia dal teatro sperimentale  a quello di marionette, si muove intorno alle sonorità della ambient music e introduce la sperimentazione con la luce. Mi piacerebbe lavorare ancora in questa direzione, ma produrre film del genere è una vera sfida. 

Mi piacerebbe realizzare contenuti originali per le proiezioni da utilizzare durante concerti e spettacoli teatrali, qualcosa da pensare partendo da uno stadio iniziale. Il mio lavoro con Rosanne, Bowie e Dolly Parton è stato adattato e poi inserito come integrazione visiva per i loro rispettivi tour, ma solo in un secondo momento.

Sto cercando di allargare l’orizzonte di quello che già ho fatto con la musica e i ritratti, in una forma più estesa. Negli ultimi anni ho cercato di sviluppare “Stay All Night”, un progetto sul leggendario concerto di Judy Garland del 1961 al Carnegie Hall, visto dal punto di vista del pubblico che si trovava li. Questo evento viscerale esiste solo per come lo abbiamo ascoltato in un album assolutamente influente, ma anche nelle memorie di questi testimoni. Non è un progetto sull’esperienza del concerto, ma sui testimoni vivi, su New York, allora e adesso. Un nuovo mosaico.

Sto anche sviluppando altri documentari di natura musicale, alcuni ritratti, e alcuni progetti narrativi, ma non posso parlarne adesso, anche se sono molto eccitato per il loro potenziale. 

Guardando retrospettivamente, nel modo in cui questa stessa intervista mi ha spinto a fare, posso dire che molti dei miei lavori sono arrivati come una sorprendente opportunità. Rimango quindi aperto all’inatteso. 

Behind The Lid
Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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