Sting al Lucca Summer Festival 2019 incanta la platea di Piazza Napoleone: My Songs è un tuffo nel passato
Lì, sul palcoscenico di Piazza Napoleone, con il suo basso e la maglietta rossa attacca una sexy e languida Roxanne. Con un atteggiamento pieno di trasporto romantico inizia un lungo corteggiamento, lui ci dona il suo cuore mentre noi, stretti e accaldati, fantastichiamo, trattenendo un incontenibile senso di felicità. Sting non ha mai avuto paura del passato e l’ultimo disco, My Songs, che dà il nome al tour lo dimostra.
Ieri sera ha incantato più di ottomila persone con una scaletta che non prevedeva pause, ha dato forma a una mappa ideale che non solo affermasse il suo percorso identitario ma la conquista di uno stato quasi atemporale.
La sofisticata Englishman in New York con la sua orchestrazione jazz ha lasciato il pubblico senza fiato, questa canzone del 1987 che racconta la storia dello scrittore britannico Quentin Crisp, icona eccentrica e gay che fuggì dall’Inghilterra conservatrice negli anni ’80 per porre fine alla sua vita a New York, si è librata nell’aria nel silenzio attento della platea.
Every Little Thing She Does Is Magic ha fatto alzare i culi di chi era a sedere, un istinto quasi irrefrenabile ha fatto scattare alcuni alle transenne sotto il palcoscenico, come sudditi alla corte del proprio re.
Sting si ferma un attimo, ricorda l’armonica di Stevie Wonder su Brand New Day, per poi sconfinare nell’emozionante ballata scritta con la complicità di Dominic Miller, chitarrista argentino, utilizzata da Luc Besson nella colonna sonora di Léon, la pazza storia di un giocatore di poker che non gioca per vincere ma per sfidare le leggi del caso ossia Shape of My Heart.
Dal 1993, si riavvolge il tempo, si torna indietro, al 1979, Walking on the moon, capolavoro della band The Police. L’influenza reggae è evidente, con il suo ritmo a scatti e la linea di basso ossessionante, Sting la compose in una stanza d’albergo a Monaco, dopo una notte brava e in preda ai postumi dell’alcool, ma poi a room preferì moon, ispirato all’astronauta Neil Armstrong.
La canzone diventa sul finale un mashup con Get up Stand up il brano di Bob Marley e Peter Tosh, quando ormai la folla è in piedi e si fa trascinare dal ritmo.
Dai suoni giamaicani si passa alla musica popolare del Maghreb, Desert rose è una sublime miscela di suoni orientali e di pop britannico.
L’unica chiusura possibile è affidata a Every breath you take, sensuale e malinconica, una dichiarazione d’amore che potrebbe benissimo essere in realtà il lamento di un uomo divorato dalla gelosia. Un lungo inchino, la buona notte ma le luci non si accendono, la folla si solleva in un urlo, tutti vogliamo che rientri in scena e Sting e la sua band non si fanno attendere, quattro bis che si concludono con una superba esecuzione di Fragile.
È Sting l’uomo magico che cerchiamo, l’unico capace di farci alzare per danzare e farci chiudere gli occhi per ritrovare la capacità di concentrarsi.