venerdì, Novembre 22, 2024

Surgical Steel: i Carcass tornano ad affilare i ferri del mestiere

1985: anno di formazione della creatura sanguinaria conosciuta come Carcass. Ma anche: incipit dell’opera con cui la metal band inglese rompe oggi diciassette anni di silenzio discografico. Se Jeff Walker e Bill Steer – unici depositari del marchio, dopo che Michael Amott è tornato in Svezia ad occuparsi degli Arch Enemy e Ken Owen è stato messo fuori combattimento da un’emorragia cerebrale – hanno posto tale data in apertura a Surgical Steel non può essere un caso. La scelta sembra, al contrario, inquadrare l’album all’interno di un percorso circolare durato quasi trent’anni: si riparte dal via, ben coscienti di quelle che sono le proprie radici. Radici che, come suggeriscono i suoni maestosi della traccia d’apertura, affondano saldamente nella vecchia scuola di Priest e Maiden. E che dunque contemplano la possibilità di una vita prima del death metal. Come dire: se all’epoca di Heartwork e Swansong eravate fra quelli che ci tacciavano di aperture commerciali, sappiate che non avevate capito una beata ceppa.

 Ed è così che per il rientro sulle scene Walker e Steer (coadiuvati dalla new entry Daniel Wildling dietro le pelli) evitano di scimmiottare fuori tempo massimo le loro intemperanze giovanili (vedi alla voce Death Magnetic),  attingendo a piene mani dalla fase adulta del gruppo e sposando il brutale progressive di Necroticism: Descanting the Insalubrious alle iniezioni melodiche del periodo 1993-1996.  Nel farlo dimostrano peraltro una mostruosa competenza tecnica, che non solo rende merito al titolo dell’album, ma che rischia addirittura di mettere in ombra i capolavori del passato. Certo, Thrashers’ Abbattoir è un pugno nello stomaco di nemmeno due minuti che avrebbe fatto la gioia di John Peel e di ogni estimatore del grind primigenio, a livello tanto musicale quanto lirico (“Delaceration / Amputation / Mutilation / Anatomization / Decimation / Victimization / Brutalization / Humiliation / Dehumanization / Damnification / Degredation / Annihilation”). Ma già in Cadaver Pouch Conveyor System i riff spaccaossa e la batteria stile macchina da scrivere vanno di pari passo con le armonizzazioni di chitarra. La traccia in questione rivela inoltre un’attitudine compositiva tutta tesa a spiazzare l’ascoltatore, che rimane perplesso di fronte a progressioni apparentemente “sbagliate”, confuso dai continui cambi di ritmo, preso di sorpresa da falsi finali e da ripartenze che non sono mai dove ci si aspetterebbe che fossero. Una caratteristica che, come vedremo, contraddistingue l’album  nel suo complesso e che letteralmente esploderà in The Master Butcher’s Apron, brano chiaramente debitore dell’ultrajazz/metal/manicomio di Red (King Crimson). A congealed Clot of Blood ci regala il primo mid-tempo Slayeriano e la carica di fredda malvagità cresce in misura inversamente proporzionale al diminuire dei bpm; quando Steer si esibisce in un extended guitar solo su base doom, la temperatura del sangue è già scesa sotto lo zero.

 La seconda parte del disco è quella in cui la propensione melodica del chitarrista emerge in maniera più evidente, tanto che – complice la voce da scorticato vivo di Walker – sembra di trovarsi ad ascoltare i Megadeth di Rust in Peace affetti da lebbra. Esemplare in questo senso un brano come Unfit for Human Consumption, che segna peraltro un gradito ritorno al gore, riletto ovviamente secondo la particolare sensibilità del gruppo. Fin dagli esordi i nostri hanno dimostrato di avere una marcia in più rispetto al combo death metal medio,  declinando le tematiche splatter attraverso un frasario sperimentale, che attingeva a piena mani dalla terminologia medica. Curiosamente, versi come “Seductive lymphandetitis / delectable septic metritis / tempting glanders jaundice / for human consumption unfit / indulging in sarcocysts / epicurean pericarditis / cariosus tender and lean / after all you are what you eat” rivelano che l’ossessione dei Carcass per il disfacimento della carne è riconducibile ad una rigorosa dieta vegana. Il promo Captive Bolt Pistol è ulteriormente sbilanciato a favore della causa animalista: con un linguaggio asettico e brutale che avrebbe reso orgoglioso Georges Franju, Walker si dilunga sulle funzioni del singolo oggetto che presiede all’eliminazione dei capi di bestiame nei mattatoi (“Aimed accles and shelvoke cash / The cranium punctured penetrated and mashed / Non-lethal pneumatic percussion cap / A meat suppressor rifled muzzle flash / Stunbolt fired / Wrought carbon alloy expelled / A knackeries recital / Respiring lines of warm stupefying black powder cordite / HILTI DX seven five zero / Low velocity recoil lock and load / Into cerebral grey matter and temporal lobe / Point two two caliber metal / Jacket blank round explodes”). La chiusura dell’opera è affidata ai nove minuti della maestosa Mount of Execution, traccia che più di ogni altra porta impresso a fuoco il marchio del tanto vituperato Swansong. Album che, in fede, andrebbe rivalutato, se è vero che il brano in questione rompe il culo alle migliori prove degli epigoni In Flames senza sforzi eccessivi.

Più voci hanno sostenuto che Surgical Steel rappresenti per i Carcass una seconda possibilità, un modo per riscattare il loro canto del cigno datato 1996 e chiudere in bellezza una carriera di tutto rispetto. Se di postilla tardiva o di rinascita si tratti, solo il tempo ce lo potrà dire. Quel che è certo è che Surgical Steel offre un’opportunità anche a quanti intendano rapportarsi nel presente ad uno dei pochi gruppi hard per il quale l’aggettivo seminale non viene usato a sproposito (non scordiamoci che ai nostri dobbiamo la paternità di non uno, ma ben due sottogeneri legati all’estremo: grindcore e death metal melodico). L’album è a tutti gli effetti un’esperienza esaltante, una fucina di idee musicali supportate da tecnica sopraffina che non lascerà indifferenti gli ascoltatori (compresi coloro che non sono fan sfegatati del genere) mossi da genuina curiosità. E, cosa non da poco, fornisce l’occasione di sperimentare ancora una volta sulla propria pelle la devastante potenza di fuoco di una chitarra elettrica accordata in SI. “Hipsters and posers I abhor / Welcome to the thrasher’s abattoir”

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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