domenica, Novembre 24, 2024

Swanz The Lonely Cat – My Soul’s Black Book. Il video di Cirkus Vogler: i migliori del 2021 #1

Con lo splendido lavoro video di Cirkus Vogler realizzato per il bel folk noir di Swanz The Lonely Cat, inauguriamo una serie di dieci approfondimenti, sulle migliori "cose" italiane di videomusica viste nel 2021.

Le dieci migliori “cose” viste nel 2021, #1

A distanza di sedici giorni dal passaggio che tutto cambia per niente cambiare, abbiamo deciso di celebrare le dieci migliori “cose” nel 2021 senza compilare una lista acchiappacitrulli, ma dedicando lentamente e con i tempi dell’approfondimento, uno spazio redazionale a ciascun lavoro. Videomusica, ma eccentrica ed eccedente.

My Soul’s Black Book, il brano di Swanz The Lonely Cat e il Video di Cirkus Vogler

La prima di queste digressioni dal calendario corrente è “My Soul’s Black Book“, brano di Swanz The Lonely Cat, progetto solista di Luca Andriolo, già fondatore dei Dead Cat In a Bag.

In una forma inscindibile, ma allo stesso tempo del tutto autonoma, il video di Cirkus Vogler, moniker di Romina Bracchi, artista umbra di stanza a Todi, dove lavora da tempo come fotografa e pittrice, mescolando letteralmente supporti e media e servendosi di numerose tecniche di manipolazione della materia, tra cui il collage. Molte le personali collettive a cui ha partecipato, mentre dopo una serie di tentativi sperimentali, quello di “My Soul’s Black Book” è effettivamente il suo primo video.

Cirkus Vogler su Instagram

Swanz The Lonely Cat su Facebook

My Soul’s Black Book non è un semplice videoclip

Nella diffusione del progetto, Cirkus Vogler ci tiene a distinguere l’operazione dall’ambito strettamente videomusicale per il rigetto della tirannia narrativa tra liriche e immagine e per il ricorso ad un immaginario che segue altre logiche del racconto, tra cui quella della sollecitazione onirica.

I riferimenti ama citare sono “L’ora del lupo“, film di Ingmar Bergman girato nel 1968 e “Psicosi delle 4:48“, l’ultima opera teatrale di Sarah Kane prima del suicidio, vero e proprio rovescio oscuro della mente.

L’idea di infestazione, ovvero quel rovescio della palpebra che individua l’origine del mostruoso all’interno della propria storia, passa attraverso le liriche di Andriolo e la potente arte immaginale di Cirkus Vogler, in una delle cose più belle viste/sentite durante l’anno passato.

Il lavoro sulle fotografie, spiegato in dettaglio nel corso dell’intervista che proponiamo più avanti in questo articolo, viene combinato per creare una pulsazione materica in simbiosi con il battito del brano, il cui risultato è quello di un folk-industrial non convenzionale, vicino e allo stesso tempo lontanissimo dalla musica delle radici, per come la intendiamo comunemente.

Nello stesso modo in cui Andriolo tratta gli strumenti tradizionali, usandoli come oggetti da cui strappare un suono che riveli la loro natura più oscura, Cirkus Vogler compie una scansione tattile sulle immagini, ritardando il più possibile la forza livellatrice dell’editing non lineare.

In termini pratici, come ci racconta, strappa le foto, le modifica manualmente, sfrutta il difetto e forza gli agenti del tempo, costruendo una personale versione dello stop-motion, come aberrazione della sequenza temporale.

Il collage, invece di essere un gioco combinatorio di matrice pop, dove l’innesto normalmente punterebbe al grottesco o al linguaggio grafico del fumetto, qui esalta le pieghe, gli strappi, le ombre, ciò che nell’immagine sfugge. La mutazione mostruosa che è quasi sembre un cambio di prospettiva, emerge come un rimosso che prende vita dall’infinita possibilità che gli scarti offrono alla visione.

I videoclip d’animazione che circolano un po’ ovunque, rappresentano spesso un estremo perfezionamento delle tecniche di motion graphics, il cui motore creativo è prima di tutto un motore tecnico legato ai software di utilizzo, capaci di livellare il linguaggio in modo riconoscibile e quindi appiattendo il risultato. “My Soul’s Black Book” è in questo senso una brillante eccezione, perché è un lavoro più selvaggio, ma dall’altissimo standard qualitativo. Può indicare in questo senso una strada nuova, anche per la videomusica, piegando gli strumenti contemporanei del digitale e resistendo con una manualità ritrovata, alla dimensione negativamente risolutiva dell’editing.

Cirkus Vogler, una conversazione con Romina Bracchi

Cirkus vogler, il moniker, mette insieme il circo e la sua concezione come luogo polimorfo che unisce la magia del luogo e l’inquietudine della condizione umana, con il cognome che Ingmar Bergman spesso affidava ai personaggi dei suoi film, dall’illusionista Albert Emanuel Vogler ne “Il volto”, all’attrice Elisabeth Vogler di “Persona”. Come artista, questa dimensione emerge nell’esperienza fotografica fatta attraverso media eterogenei utilizzati in campo analogico (camera oscura, foro stenopeico, polaroid, cianotipia gomma bicromata, carta salata, solarizzazione), e successivamente digitale (dall’alta definizione al low-fi).
Le tecniche miste sono il segno distintivo della sua arte, realizzata servendosi di carta, foto vintage, materiali fotografici e iconografici di recupero.

Benvenuta su indie-eye, come è cominciata la collaborazione con Swanz per il video di My Soul’s Black Book e come si è sviluppata in termini di lavorazione?

Grazie, sono felice di essere qui. Credo che il tutto nasca da una reciproca stima artistica. Circa un anno fa, mentre facevo i miei esperimenti con il passo uno, Swanz mi ha detto che aveva una canzone in cantiere alla quale gli sarebbe piaciuto associare un video di quel tipo. Da lì ho cominciato a lavorarci confrontandomi con lui di tanto in tanto.

Questo non è il tuo primo approccio con il video, la tua arte era già confluita in alcuni esperimenti visual. Puoi raccontare qual è il processo che ti conduce dalla fotografia all’immagine in movimento?

Mi mancava qualcosa. Creare immagini in movimento fa parte della mia personale evoluzione artistica. Quando ho iniziato a sperimentare col video ho anche trovato enormi difficoltà perché ero abituata a immagini ferme e mi sono trovata in un mondo molto diverso da quello a cui ero abituata,ma con dei punti in comune: il montaggio per esempio è simile al processo di tagliare e incollare, che come collagista conosco bene ed è la parte più divertente.

Il video di My Soul’s Black Book è costituito da media eterogenei. L’accezione di mixed media per te include un approccio materico agli oggetti che confluiscono nell’insieme? In che modo, se puoi raccontarcelo?

Di solito lavoro assemblando gli elementi che ho a disposizione, cercando di sfruttare i limiti di quello che non ho. Sono un’accumulatrice seriale di reperti e scarti, non è raro che torni da una passeggiata con lo zaino pieno di foglie da essiccare o objects trouvée che attraggono la mia attenzione. Quando lavoro ad un’immagine mi piace mettere insieme diversi elementi in modo da dare un’idea di tridimensionalità.

Come mai la scelta dello stop motion?

Lo stop motion è una tecnica che mi ha sempre affascinata e avevo voglia di vedere le mie
immagini in movimento.

Il risultato mi è sembrato un sorprendente mix tra animazione e quell’attenzione alla vita degli oggetti inanimati che attraversa la cultura surrealista, dalle origini fino alle declinazioni più recenti, penso al radicalismo di Svankmajer…

Possiamo dire che il video è un compendio di influenze estetiche di varia provenienza, senza
sconfinare nel citazionismo. Ovviamente si possono menzionare Svankmajer, Bokanowski, ma anche Ballen, Witkin e persino Tsukamoto.

Non ti piace e non vi piace definire il video di My Soul’s Black Book un videoclip. Mi piacerebbe sapere perché. Sicuramente esce dal solco della videomusica tradizionale ma è anche vero che la rete ha cambiato le carte in tavola in termini di possibilità e ibridazioni…

Ci piacerebbe che la canzone e il video potessero essere considerate due opere distinte. In questo caso comunicano bene tra loro ma potrebbero anche non farlo. È un doppio racconto, sebbene in entrambi i casi affidato all’allusione.

Il difetto, il glitch, le fotografie strappate, l’incertezza del movimento a passo uno, sembra siano tra i tuoi interessi percettivi maggiori. Cosa ti attrae delle imperfezioni e soprattutto, come lavori sulle fotografie in particolare, come le tratti, le trasformi, le plasmi…

Il mio approccio all’arte è condizionato dalla mia mania personale di recuperare e ricostruire, un po’ come insegna la tecnica giapponese del kintsugi, che consiste nel valorizzare le crepe di un oggetto con l’oro. Non faccio quasi mai storyboard, parto da un’idea iniziale e vado avanti facendomi travolgere dall’ imprevisto. Uso tutte le imperfezioni della carta stropicciata enfatizzando i difetti, mi lascio ispirare dall’errore trasformandolo in strumento di espressione.

Analogico e digitale. Il primo è sicuramente predominante in termini di materiali, ma il secondo ti consente di combinarli. Come interagiscono questi due mondi apparentemente agli antipodi?

Ho manipolato a mano ogni frame, strappando, incollando e dipingendo, in un’era di editing
digitale. Se ci penso la cosa dovrebbe farmi sentire antiquata e mi dico che ho impiegato un tempo dieci volte maggiore. Forse, semplicemente, non mi piace il digitale puro e il mio amore per la matericità non mi permette di escluderla da ciò che faccio. Il risultato che ottengo unendo analogico e digitale ha un sentore di tecnologia ormai sorpassata, come potrebbe essere un video in VHS, ormai diventato con le sue imperfezioni una fonte di ispirazione per varie forme d’ arte. In fotografia potrei nominare il foro stenopeico, che non sostituisce la ripresa digitale (la quale, bizzarramente, si arricchisce continuamente di filtri vintage o low-fi). Potrei dire che quello che faccio è una sorta di glitch art analogica, una sperimentazione estetica ispirata da tecnologia ormai obsoleta. Però ritengo il digitale molto utile e cerco di sfruttarlo al meglio e combinarlo con la manualità. Non confondo il fine con il mezzo, o medium.

Qualche progetto futuro che si avvicini a questo e quindi alla videomusica contemporanea, nell’accezione più larga del termine.

Abbiamo in cantiere altri video, anche girati in modo tradizionale (tra l’altro i Dead Cat in a Bag, la band di provenienza di Swanz The Lonely Cat, ha sempre avuto un’attenzione particolare all’aspetto visivo), ma non strettamente musicali. Anzi, questa volta si partirà dal girato e la musica seguirà. Ci sono interi mondi da esplorare

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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