La premiata casa Goldfrapp&Gregory ha sempre messo a segno i proprio successi all’insegna dell’autarchia.
Fu così all’inizio del duemila, quando nella campagna del Wiltshire i due portavano a termine Felt Mountain, l’album di debutto di cui si aspetta tutt’ora un rocambolesco ritorno. Lì forgiavano un manufatto trip-hop dai riflessi cangianti, oscillante fra atmosfere alla Portishead e protagonismo alla Bjork; un muro di effetti elettronici rotto dagli archetti dei violini e dalle note del mellotron. Gli anni passano, giunge Supernature che rende evidente l’aspirazione di Alison Goldfrapp a candidarsi fra le stelle del pop. Tuttavia l’album non riesce a consacrarla a dea del genere, nonostante il rimbalzare di remix ad opera dei vari Benny Benassi e Tiefschwarz Dub e la sua presenza da super vamp avvolta dal vedo-non-vedo . Tutto ciò getta manciate di amaro e sale sul narcisismo inappagato e inappagabile della bella Alison, tant’è che con Seventh Tree i due cambiano nuovamente rotta, preferendo all’electroclash del disco precedente la tranquillità e la malinconia del sottobosco ambient.
Oggi, a tre anni dal revival anni ’80 di Head First, esce Tales of Us, album che completa il ponte immaginario che lo unisce alla produzione di Seventh Tree. Dieci canzoni dal minutaggio considerevole in gran parte ispirate dalle letture narrative di Alison. Dieci canzoni dietro cui si nascondono altrettante storie come nel caso di Annabel o Simone. Un album oscuro in cui Alison recita la parte della civetta notturna, una Ladyhawke algida che fluttua descrivendo l’andamento circolare di Alvar e lo sferzare d’archi di Stranger. A mantenere aperto un varco sui trascorsi techno-pop è Thea col suo pulsare incallito e spugnoso di suoni elettronici.
Se il prossimo tassello nel mosaico Goldfrapp avrà tendenze ballabili e dance, è una supposizione che trova suggerimento nella simmetria che fin’ora ha scandito la loro produzione. Con Tales of Us i Goldfrapp affinano le proprie armi e modellano una materia in parte già conosciuta e già navigata. Proprio per questa familiarità di genere, il risultato generale lascia interdetti. Fatta eccezione per pezzi come Thea e Drew, non si può dire che l’album abbia un gran mordente né che affondi le unghie quanto dovrebbe. Tales of Us sembra per lo più accontentare i fan di vecchia data, facendo sentire la propria voce prima di insabbiarsi per altri (tre?) anni di attese e di nuove speranze.