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The Bluebeaters: la foto-intervista @ Biko – Milano – 28-11-2014

I Bluebeaters nei loro venti anni di carriera hanno avuto innumerevoli vite, segnate da cambiamenti di prospettiva e di organico: da gruppo di amici che suona per semplice divertimento si sono ritrovati in cima alle classifiche e a suonare davanti a decine di migliaia di persone in Italia ma anche all’estero, fronteggiando perdite importanti, ultima quella del frontman Giuliano Palma, e accogliendo nella loro famiglia volti nuovi ma comunque in grado di tenere alta la bandiera del loro ska e rocksteady. In questi mesi la band inizia l’ennesima nuova vita, con Patrick Cosmo, già tastierista, alla voce e un cambio di etichetta, con il passaggio alla Record Kicks, per un inusuale ma poi non così tanto abbraccio tra il soul e i ritmi in levare. Abbiamo incontrato proprio Patrick, assieme a Cato, il chitarrista del gruppo, prima della data milanese al Biko dello scorso 29 novembre, per sapere qualcosa in più su tutte queste novità e anche per dare uno sguardo indietro, agli anni degli esordi.

Inizierei facendo il punto della situazione: chi sono i Bluebeaters oggi?
C: i Bluebeaters oggi sono composti da tre elementi che sono quelli che non se ne sono mai andati: io, Cato, che suono la chitarra, Paolo De Angelo Parpaglione che suona il sassofono e Ferdinando Masi alla batteria. Poi c’è Gigi, il trombonista, che ha fatto parte della band dal 1999 al 2008 e ora è tornato, e poi c’è Patrick, che è stato il rientro più significativo perché è diventato il cantante della band, dopo essere già stato con noi dal 1994 al 2003. Gli altri due, Pak Ko al basso ed Enphy al pianoforte, sono le new entry che hanno sostituito Sheldon, l’americano al basso che a sua volta sostituì Bunna, e Peter Truffa, che suonava le tastiere dopo proprio Patrick.

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Nonostante tutti questi cambi di formazione siete arrivati a 20 anni. Cosa non è mai cambiato durante la vita dei Bluebeaters e cosa vi ha permesso di durare così a lungo?
C: ciò che non è mai cambiato è questo ritmo formidabile che è lo ska. Poi tutti quanti siamo cresciuti, con esperienze diverse, ad esempio i Casino Royale, di cui Patrick è l’ultimo superstite originale assieme ad Aliosha, oppure io, Paolo e Gigi abbiamo fatto parte per tanti anni degli Africa Unite, band reggae, comunque quello che non è mai cambiato è la radice black di ciò che facciamo.

Il cambiamento che ha fatto più notizia è stato quello alla voce, da Giuliano a Patrick. Come sei arrivato a fare il cantante, anche perché non l’avevi mai fatto prima?
P: è una scommessa per tutti questa, sia per me che per gli altri membri della band. Io ho sempre cantato, non sono mai stato un frontman o un solista ma ho sempre fatto i cori per tantissimi progetti di cui ero anche produttore. Da un po’ di anni avevo anche cantato cose che non avevano a che fare con il genere, ma erano dei piccoli miei esperimenti di cui gli altri erano a conoscenza. Per questo abbiamo deciso di provare: all’inizio c’è stato l’esperimento di cantare suonando il pianoforte, ma poi abbiamo capito che avevamo bisogno di una persona davanti, non solo su mia richiesta ma anche degli altri. C’era bisogno di qualcuno che catalizzasse l’attenzione del pubblico. La cosa bella dei Bluebeaters comunque è che non c’è solo il cantante al centro dell’attenzione, ma ci sono anche gli altri che fanno i loro soli, che hanno il loro momento: si può dire che ognuno di noi è un personaggio a sé stante all’interno di una cooperativa, ha una propria identità e un proprio modo di esprimersi. È un valore in più per i Bluebeaters che ora siano una band, oltre al cantante.
C: una cosa che mi piace sempre dire è che una band è fatta da persone, dove lo scambio umano, le caratteristiche umane sono importanti. Questo va anche al di là di quanto tu sai fare con il tuo strumento. Un’orchestra al contrario è formata da professionisti, gente che può anche non conoscersi perché non è richiesto che si conoscano, si chiede solo una conoscenza approfondita di quello che si suona. Nel nostro caso si torna alla dimensione di band, non voglio dire che sia un passo indietro però.
P: esatto, anche perché la conoscenza approfondita musicale ce l’abbiamo. Oltre a questo stiamo bene insieme, possono esserci disaccordi su alcune cose, ma è normale nel processo creativo e alla fine ci si trova nel mezzo. Ognuno si è ritagliato il proprio ruolo, ha fiducia nell’altro, e così si va avanti, speriamo per tanto.

Un’altra novità è l’etichetta, la Record Kicks, che solitamente però è più legata a soul & funk e un po’ meno al levare, forse solo gli Strides nella sua storia. Come siete entrati in questa famiglia?
C: esiste un altro progetto a Torino che si chiama Soulful Orchestra, un progetto derivato da un gruppo di DJ che si chiama Dancing Soulful Torino. Tutti i Bluebeaters, nessuno escluso, hanno fatto parte in qualche modo di questa band, per esempio Patrick ne ha prodotto il disco. Io ho conosciuto Nick della Record Kicks tramite la Soulful. È vero, il genere è diverso, ma l’attitudine, tornando al discorso di prima, è la stessa, l’attitudine black. Per esempio è normale che chi è intrippato di northern soul si balli un pezzo ska.
P: anche perché lo ska è sempre stato influenzato dal northern soul, dalla musica americana che arrivava in Giamaica. Quindi chi conosce tutto del northern soul si può ritrovare a sentire un pezzo, che magari nel giro era famoso, rivisitato in chiave ska. Quindi è un cerchio che si chiude tra appassionati di una certa epoca della musica, quando veniva fatta in un certo modo, a migliaia di chilometri di distanza ma con un sentire comune. Questo lega i rude boys ai mods, tutti quei movimenti.
C: gli appassionati veri di musica non si fermano davanti alle etichette, capiscono quello che c’è dietro, tutta la filiera. W l’osmosi, mi viene da dire.

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Il primo singolo di questa nuova vita è stato Toxic, cover di un brano di Britney Spears. Come mai questa scelta? Vi piace anche il pezzo originale?
P: sembrerà strano, ma a me quel pezzo è sempre piaciuto, perché al di là di Britney Spears, al di là dell’interprete della canzone, c’è sempre l’autore dietro e qui ce ne sono tanti che secondo me hanno scritto un pezzo veramente pazzesco, che durerà negli anni e che sarà difficile dimenticare. Tant’è che se andate su Youtube troverete una lista di migliaia di persone che hanno reinterpretato Toxic: questo dà la cifra della canzone, che è una canzone stupenda. Erano anni che ci pensavo, quando ero uscito dai Bluebeaters anzi mi chiedevo “perché non la fanno?”. Ha una costruzione armonica e stilistica adattissima, l’ho pensata subito ma me la sono tenuta in tasca per anni, poi quando c’è stata l’occasione l’ho tirata fuori, l’ho proposta pensando che potesse funzionare. È stato difficile sia cantarla che arrangiarla, perché non è un pezzo così semplice, a volte le cose che sembrano più semplici, come questa, invece sono le più difficili dal punto di vista esecutivo e di composizione. Quindi è stata una bella sfida, però questo fa parte un po’ del DNA dei Bluebeaters, che per esempio nel primo disco fecero Believe di Cher e altri pezzi presi dalla classifica. State attenti perché ci saranno altre sorprese di questo genere.

In questi giorni esce anche il singolo natalizio, I Saw Mommy Kissing Santa Claus. Com’è nata l’idea di farlo e di scegliere quella canzone in particolare?
P: io amo Phil Spector, a casa ho il box con tutta la sua produzione in cui c’è anche il suo disco dedicato al Natale e appena abbiamo pensato di fare questa cosa ho proposto di farlo in quella chiave. E qui si ritorna al discorso di prima, perché quando si parla di ska alla fine si attinge sempre dalla musica americana, dalla black music: tutti hanno pescato da lì.
C: l’anno scorso invece facemmo Silent Night, che fu la prima registrazione in assoluto del nuovo combo, fatta in un quarto d’ora in sala prove. Quello era un super-classico, quest’anno invece abbiamo deciso di fare più che un pezzo natalizio un pezzo che ne parli in maniera ironica, la storia di questo bambino che scende le scale e vede la mamma che limona con Babbo Natale.
P: il bello è che il bambino dice che papà sarebbe contento e che riderebbe, perché vedrebbe che Babbo Natale esiste.
C: anche per noi esiste, i Bluebeaters credono in Babbo Natale.

E cosa vi porterà?
P: un disco nuovo, però a Pasqua.

Cosa dobbiamo aspettarci dal disco quindi? Ho letto che ci saranno sia cover che inediti…
C: per prima cosa noi siamo ripartiti da quello che sapevamo fare, cioè riarrangiare. Poi la sfida è quella di trovare un percorso creativo nuovo, quindi non lo sappiamo se ci saranno degli inediti. Di sicuro, per disintegrare i confini e le etichette, abbiamo scelto delle canzoni ancor di più a largo raggio. Mondi che non voglio definire opposti, perché secondo me in musica non ci sono antitesi, la musica è musica, però sicuramente frutto di ispirazioni molto diverse. Il tutto naturalmente riarrangiato alla nostra maniera e cantato superbamente da Patrick.

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Avete iniziato tutti a suonare negli anni Ottanta e Novanta. Se doveste fare un confronto tra allora e adesso, cosa direste?
C: io e lui, che siamo più o meno coetanei, abbiamo colto un momento molto bello, che è stato l’inizio degli anni Novanta, l’esplosione delle posse. Questo ha fatto sì che aumentasse l’interesse verso gruppi che non erano conosciuti ma che facevano una miriade di concerti. I nostri gruppi originari sono stati i Casino Royale per lui e gli Africa Unite per me. Chi arrivava intorno ai 18-20 anni allora aveva interesse per un certo mondo, si cominciava a sentire la parola “centro sociale”. Esistevano dei posti che veicolavano un certo tipo di musica e di idee e noi li abbiamo vissuti. Io e lui abbiamo sicuramente visto in dei ragazzi che erano più grandi di noi una strada da percorrere, un esempio, perché chi arriva dagli anni Ottanta ha dovuto veramente essere pioniere, aprire delle strade a colpi di machete. Io e lui siamo arrivati in una fase in cui siamo stati un po’ più facilitati perché le porte erano già aperte.
P: sì, iniziavamo a far uscire dischi per delle major, quando loro invece erano partiti totalmente da indipendenti. Noi abbiamo vissuto l’esplosione di questa cosa, di quello che veniva dal basso e veniva ricercato dalle case discografiche. Andavano proprio per locali a cercare nuove band, si bevevano le loro birre, parlavano con la gente, mentre ora si fa tutto col computer, si guardano le visualizzazioni per capire se un gruppo può essere interessante.
C: questo probabilmente è uno degli aspetti nefasti, il rovescio della medaglia della rete, che ha giustamente concesso un’informazione globale, ma ha anche da un certo punto di vista svalutato quello che è l’interesse e lo spirito di ricerca del nuovo. Ora questo manca, e manca anche una certa coerenza nei gruppi giovani, che con tutte queste voci che si ritrovano attorno tendono facilmente a deviare da quelle che sono le loro idee.
P: sono un po’ disarmati, prima c’era tutto questo retaggio dell’impegno sociale, del fatto che per avere un po’ di visibilità dovevi passare comunque dai centri sociali e avere una credibilità anche da un punto di vista quasi militante. Questo era un bene ma anche un male, naturalmente. Poi c’è stato un rifiuto di questo cosa, però ora molta gente non ha i mezzi per giudicare quello che sta facendo, per poter indirizzare meglio ciò che fa. È tutto molto più commercializzato.
C: uno degli aspetti negativi di questo periodo è che ci si dimentica che bisogna salire su un palco e saper comunicare: puoi essere più o meno bravo col tuo strumento, ma devi avere qualcosa da dire. Il discorso della militanza era una maniera di significare qualcosa.
P: secondo me questa cosa un po’ sta tornando ora. Gli anni Duemila sono stati un po’ come gli anni Ottanta.
C: il periodo dal 2007/08 fino ad oggi soprattutto, c’è stato un nuovo edonismo. Se non altro però gli anni Ottanta hanno un merito, per quanto riguarda l’architettura e molte altre cose: è l’ultimo periodo a cui possono essere associati degli oggetti, per esempio di un edificio si può dire “è anni Ottanta”, cioè che ha uno stile che prima non esisteva. Dal decennio successivo dici “anni Novanta”, ma ci vedi già un rimescolamento di qualcosa. Ci sono delle cose che sono tipiche degli anni Ottanta, dalle acconciature ai vestiti ai suoni e anche alla maniera di comporre le canzoni. Da dopo è stato sempre un recupero. Purtroppo c’era anche l’attitudine nefasta, l’edonismo, che con questa menata dell’hipsterismo è tornato negli ultimi anni.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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