Il sodalizio tra Tim Pope e la band di Robert Smith aveva già dato ottimi frutti con i primi quattro video realizzati dal 1982 al 1984. Inaugurato con la clip di Let’s go to bed, era riuscito a consolidarsi attraverso un lessico preciso, a partire dalla centralità performativa di Robert Smith. L’artista inglese, fluida Alice in wonderland, viene calato all’interno di set sempre più contratti e con l’inserimento di props che restituiscono un’esperienza incongrua dello spazio scenico, quasi sempre legato all’esperienza privata, psichica e onirica. Prospettive esacerbate, punti di vista vicini alla macrofotografia scientifica, prossimità di corpi, oggetti e un micromondo ad altezza insetto, che il geniale regista inglese realizza con una combinazione vitale tra ottiche e set design.
In between days rappresenta una sintesi di quelle intuizioni, ma soprattutto la capacità di superarle, piegando le regole più consolidate della videomusica a partire dallo sfruttamento estremo dello spazio performativo. Rivisto oggi a distanza di quasi 40 anni, sembra dialogare con l’ecologia dell’immagine contemporanea, fatta di rispecchiamenti continui, di centralità esasperata del soggetto, con una prossimità che già preconizzava le webcam, le body-camera, i dispositivi action, le sinapsi tra gesto e smartphone.
Eppure questa apparente immediatezza e intimità performativa, si cala in mezzo al set con un’architettura sicuramente “leggera” rispetto alla magniloquenza di altri lavori coevi, ma più ingombrante di quello che si può immaginare.
Filmato in pellicola bianco e nero con la direzione della fotografia di Chris Ashbrook, e l’integrazione successiva di alcune sequenze a colori, realizzate sfruttando i raggi ultravioletti, l’attento make-up di Yashi e un intervento di pittura e animazione in post, riorganizza uno spazio performativo neutro, immergendosi letteralmente nel gioco dei musicisti come parte attiva di quel movimento. Tim Pope assicura la cinepresa al manico della chitarra con alcune cinture, ne issa un’altra su un’altalena lanciata verso Robert Smith, o al contrario da questo verso il vuoto. Agganciata come una protesi che diventa tutt’una con l’andamento ritmico del brano, la cinepresa riesce a rimbalzare tra strumenti e corpi, con un’intuizione che solo due anni dopo sarà estremizzata da Godley & Creme per il video di Hip to be square, realizzato per Huey Lewis And the News. Ma se in quel caso i due creativi sconfinano tra mondo televisivo e strumenti scientifici, impiegando un dispositivo destinato alle esplorazioni endoscopiche, Tim Pope rimane ancorato ad un’idea fieramente artigianale nella decostruzione immaginifica della performance. L’occhio, per quanto parzialmente disincarnato, è ancora legato al trucco e alla fantasia meliesiana, all’invenzione del punto di vista e al corpo a corpo tra dispositivo e attori in gioco.
Le liriche del brano, inafferrabili proprio quando si presume di comprenderne il significato, si legano comunque alle riflessioni di Smith sul tempo, i mutamenti e la dimensione affettiva, con una messa in abisso continua tra più versioni del proprio sé. Tim Pope, che cerca quasi sempre il senso attraverso il movimento,le luci e i colori, affida proprio alla lotta tra Smith e la cinepresa l’esortazione ad allontanarsi dal dolore. La versione ectoplasmatica dell’artista inglese, una costante nella videografia della band tra riflessi e doppi, evidenzia quell’essere “inbetween”, che si verifica quando passato e presente collidono.
In between days viene filmato in soli tre giorni negli studi Fulham di Londra e con due settimane aggiuntive di post produzione solo per le sequenze dipinte e animate, escluso l’editing effettivo.
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