sabato, Novembre 2, 2024

The Devil Makes Three – I’m A Stranger Here: la recensione

The Devil Makes Three con questo I’m A Stranger Here arrivano al quarto album di studio in dodici anni (l’esordio eponimo è infatti datato 2002), raggiungendo quelli che per ora sono i vertici artistici della loro produzione.
Il terzetto originario del Vermont ma trasferitosi in California, a Santa Cruz, porta infatti a pieno compimento in questo disco la sua ricerca musicale, basata sui generi della tradizione americana, dal bluegrass al jazz di New Orleans con tutto quello che ci sta in mezzo. Per farlo i tre si sono fatti produrre da Buddy Miller, uno che per capirci ha lavorato con Solomon Burke, Robert Plant e Patty Griffin e che ha una carriera di tutto rispetto anche come solista, e sono andati a registrare all’Easy Eye Sound Studio di Nashville, di proprietà di Dan Auerbach, che da solo e con i Black Keys, piacciano o non piacciano, sta facendo molto per risvegliare e tenere vivo il suono dell’America più profonda, in parallelo con quell’altro diavolo di nome Jack White.
I dieci brani dell’album scivolano via che è un piacere, creando una nicchia spazio-temporale che ci catapulta da qualche parte nella Bible Belt (di cui Nashville per molti è la fibbia) in un momento indefinito tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo, non suonando però gracchianti e impolverati come i reperti di quell’epoca, ma al contrario pieni e freschi, come se fossimo davvero ancora oggi al centro di una festa in un fienile texano con bottiglioni di whisky XXX. Al di là di questo ciò che colpisce è la qualità intrinseca delle canzoni, tutte validissime quando invece negli album precedenti qualche caduta di stile e qualche eccessivo sbrodolamento c’era; questa volta invece tutto funziona e in 34 minuti il trio riesce a dire tutto con classe e muscoli, dall’iniziale Stranger, molto american gothic col suo testo che parla di cadaveri fatti tornare in vita, fino alla chiusura affidata a Goodbye Old Friend, ballatona country come non se ne fanno più. Nel mezzo ci sono altre perle, come la jazzata Forty Days, naturalmente a tema biblico con la collaborazione della banda della Preservation Hall di New Orleans, o il bluegrass indiavolato di Hallelu, che fa alzare lodi al Signore anche a un ateo come me. Unitevi a me!

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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