I Danesi Pinkunoizu arrivano al secondo episodio della loro carriera dopo il debutto, targato sempre Full Time Hobby, e intitolato “Free Time“. The Drop, mostra una coesione maggiore e sopratutto la volontà di lavorare su un concetto magniloquente di psichedelia, un vero e proprio “kolossal” del genere in termini di durata dei brani, elementi costituitivi , ambizioni, tant’è se la precarietà del primo episodio poteva essere anche imputata all’instabilità dei membri della band, questi si sono riuniti tutti nella nativa Copenhagen per lavorare al loro secondo lavoro con una concentrazione maggiore.
Pinkunoizu sono Jaleh Negari (batteria), Jeppe Brix (chitarre) Andreas Pallisgaard (chitarre, voce) e Jakob Falgren (chitarre, tastiere, basso) e secondo quello che hanno dichiarato a mezzo stampa, hanno lavorato a The Drop senza una struttura o un concetto ben presente in mente ma lasciandosi andare ad un flusso compositivo che potesse mettere insieme ascolti influenze ed esperienze, incluso il loro breve viaggio in asia, che già influenzava l’album precedente, con l’inserimento di alcuni elementi strumentali etnici.
The drop, in realtà sembra un’enciclopedia psichedelica, che mette insieme un po’ di tutto, alto e basso, con una propensione alla magniloquenza che fa pensare per certi versi al formato esteso dei Gong più ossessivi, quelli di Camembert Electrique. Anche se buona parte delle tracce viene introdotta da un’inesorabile motorik alla Kraftwerk, lo sviluppo spesso va altrove, i dieci minuti di Necromancer parlano chiaro, la sequenza dei synth analogici crea il contesto ritmico sul quale si innestano progressivamente elementi di vario tipo, fino ad un’esplosione orchestrale che fa quasi pensare agli Electric Light Orchestra.
E cosa dire di Moped (Smoke! on the water), un vero e proprio delirio psichico che mette insieme l’oriente, la psichedelia anni ’70 e una declamazione vocale che non sfigurerebbe in un rave del decennio scorso, mentre I Said Hell you said no è una nenia folk trasmessa direttamente dallo spazio dove vengono innestati canti di tribù native.
Viene in mente un lavoro nato da una branca dei Talk Talk, quella di Lee Harris e Paul Webb sotto il moniker di O’Rang; Herd of instincts fu registrato nel 1994 in una condizione non dissimile da quella in cui i Pinknoizu hanno lavorato a The Drop, ovvero lasciando parte dello spazio compositivo all’improvvisazione, il risultato era un crocevia tra psichedelia, musica etnica, elettronica.
La differenza risiede nelle preferenze, quelle dei Pinkunoizu sono più vicine ai primi Can anche da un punto di vista timbrico e c’è una maggiore propensione all’insieme degli strumenti elettrici. A conferma di questo, la scelta di registrare parte dell’album nella città libera di Christiania, fondata nei primi anni 70 da un gruppo di Hippie che aveva occupato una base navale dismessa e attualmente quartiere di Copenaghen regolato con una forma parziale di autogoverno, scelta di una location “utopica” che, nelle intenzioni della band, era quella di ricreare un suono che non si legasse esplicitamente ad un luogo, anche temporale, ma che si modellasse via via, certamente a partire dalle intuizioni più libere degli anni ’60, ma per approdare poi verso un concetto di psichedelia primigenio e originario.
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