Terzo album per la band di Marco Campitelli che per l’occasione ospita nell’organico Gioele Valenti (Herself) e Amaury Cambuzat degli Ulan Bator, autore tra le altre cose dei disegni per l’artwork del cd; e si fa assistere in consolle da un tecnico del suono del calibro di Toshi Kasai. Il risultato è un violentissimo attacco sonico che comincia quasi dalla parte dei CAN per avventurarsi in un’incompromissoria avventura tribale dove tutti gli elementi che hanno caratterizzato la musica dei The Marigold vengono estremizzati e deformati attraverso una lente che confonde limiti e generi.
Psichedelia, hard blues deviato, wave, shoegaze, garage, gli anni ’90 di band come Bitch Magnet e Bastro e sopratutto un’attitudine impro molto più marcata che in passato, spinta sul confine di un Jazz visionario che decostruisce l’impatto power trio in un’esperienza quasi cubista; basta pensare ad una traccia come Sludge – Jungle, dove i synth mimano quasi il suono di un John Hassell impazzito, un rapporto con la tradizione “world” che torna in altri episodi come so say we all, dove mandolino e lapsteel guitar sono al servizio di un mantra visionario e ossessivo.
Quello che si perde in Kanaval è la recinzione del brano, perché se i riferimenti ci sono tutti, questi vengono decostruiti in una violenta tempesta free-form che ha pochi eguali in Italia (forse solamente i Father Murphy) per originalità, potenza, inafferrabilità e maleficio.