Second Coming esce dopo cinque anni e mezzo di pausa dal debutto degli Stone Roses.
È il cinque dicembre del 1994 e il contesto musicale britannico è mutato. La nuova british invasion rischia di spingere sullo sfondo la band di Brown, Squire, Mani e Reni, mentre si attinge a piene mani anche dalle loro intuizioni, facendo il verso al groove che aveva caratterizzato il sound Madchester in quella fusione tra pop, acid house e influenze psichedeliche.
Le aspettative, il ruolo nefasto della stampa di settore nel pomparle, per poi disinnescarne la carica, i gusti e le intenzioni dei rispettivi membri, sviluppati in direzioni diverse ed infine la scomparsa di Philip Hall, addetto stampa della band, morto di cancro un anno prima della pubblicazione, collocano Second Coming in quello strano limbo tra un lavoro fuori tempo massimo e un’elegia dell’oscurità, tanto introspettiva quanto affascinante.
A questo si aggiunge una lavorazione lunghissima, sofferta e culminata con quello che sarà un imminente scioglimento rispetto alla data di pubblicazione dell’album, preceduto dall’abbandono del progetto da parte di Reni, il batterista, all’inizio del 1995.
Sottoposto a continue rivalutazioni, anche nella cultura popolare, basta pensare alla debacle tra Nick Frost e Simon Pegg in Shaun of the Dead di Edgar Wright mentre decidono quali dischi salvare e quali fracassare contro l’orda di morti viventi, l’album è anche il risultato di un progressivo ritrarsi.
Al di là delle occorrenze intorno ai tre video realizzati durante la promozione, dove i membri della band partecipano in forma ridotta oppure disertando completamente il set, emerge un’immagine distante, simulacrale e volutamente fuori fuoco rispetto alla centralità mediatica del momento.
Non solo l’assenza di Reni, ma una programmatica frammentazione dell’identità della band, ad eccezione del secondo video realizzato per il singolo di Love Spreads, diretto da Steve Hanft per il solo mercato statunitense, l’unico ad avere un setting tradizionale, rimosso dal profilo Youtube ufficiale della band e sostituito con la clip originariamente realizzata per il mercato britannico.
Il video che meglio sintetizza queste intenzioni è Ten Storey Love Song.
La dolente ballad di resistenza amorosa, si trasforma nell’immagine disgregata di un incubo febbrile, dove tutto promana dalla soggettiva interiore di Ian Brown, e ogni immagine è un riflesso fallace. Mani e Squire guardano il video americano di Love Spreads, l’unico dove effettivamente sono tutti insieme; Reni è assente dal set, ma una figura non identificata porta una maschera con il suo volto, identica a quelle con i tratti di tutti i membri, indossate da un gruppo di ballerine nel video di Begging You.
Il set è una stanza ricostruita con tutte le sproporzioni di una visione distorta ed espressionista, mentre found footage familiare e immagini dal cinema globale delle origini si intrecciano con le elaborazioni della coscienza.
Dietro la macchina da presa, Sophie Muller, già affermata dopo la sua lunga collaborazione con Eurythmics, Annie Lennox e una serie di video importanti realizzati nel 1994, tra cui la “prom night” di Courtney Love nel noto Miss World.
Difficile negare le suggestioni psicotrope del video, quasi fossero un indicatore di quello che stava accadendo alla band, inclusa la messa in scena di una crisi d’astinenza. Eppure il video ha ancora un fascino incredibile per le modalità con cui il set viene plasmato sulle possibilità della coscienza. L’incubo, la visione aumentata, le proiezioni dell’inconscio e non ultimi i frammenti dell’attività mnestica, espandono i confini di una stanza e quelli dei set videomusicali coevi, troppo spesso ancorati alla centralità performativa, oppure alla relazione tra oggetti e liriche stabilita in termini mimetici.
La love song tutta introflessa di Brown, diventa anti-apologetica con le immagini di Sophie Muller. Prima ancora che Danny Boyle fondi una retorica efficace e furba sulla soggettiva psicotropa, riconfigurando la claustrofobia degli interni con un’immagine spinta verso la distorsione, la Muller costruisce un set con le luci, i colori e i props del cinema horror contemporaneo, senza calcare la mano sulla forma esteriore della visione, ma al contrario, cercando in un’arte visuale di tipo combinatorio, la relazione tra coscienza e immagine. Perché è soprattutto l’origine e la sorgente di quest’ultima a interessarla. Tutti i corpi, in Ten Storey Love Song, sono rimediati da una cornice che li incorpora e li rende evanescenti, inclusa la presenza centrale di Ian Brown, fantasma di se stesso, investito da una luce catodica oppure inscritto nel formarsi incerto di un segnale broadcast. La band abita allora un interstizio tra presenza e assenza, tra set e immagine trasmessa.
Nella tempesta di neve, o meglio ancora, in quella prodotta dal rumore bianco di una memoria assediata da immagini ipermediali e dallo sfaldarsi della propria, l’avventura degli Stone Roses sfuma e si infrange nell’angoscia dei novanta.