Jesse Lortz è un songwriter di Seattle, ha pubblicato numerosi album attraverso una serie di progetti, il più noto dei quali era The Dutchess and The Duke, che già mostrava i tratti distintivi della sua scrittura, tra folk e un’eplorazione disperata dei sentimenti. Case Studies arriva al secondo album sulla lunga distanza dopo quello che fino a quel momento si poteva considerare il lavoro più riuscito del musicista americano: The World is Just a Shape to Fill the Night, pubblicato nel 2011.
Esce adesso per Sacred Bones, il nuovo This is Another Life, lavoro che cammina sullo stesso corso del precedente, una manciata di folk ballads malinconiche e legate ad una tradizione ben precisa, ma con una credibilità forse maggiore nel mantenere equilibrio tra una certa tendenza che prima potevamo chiamare “depressiva” e la credibilità del risultato sonoro.
Cambia allora lo scenario, dall’impostazione sostanzialmente chitarristica, qualche percussione e un po’ di backing vocals che ammiccavano alla tradizione, This is another life è interamente costruito sul suono di un piano verticale accordato lievemente fuori tono, come quelli del vecchio Vaudeville, ambientazione sonora che restituisce il senso di un tempo irraggiungibile, il racconto di un evento rilevato all’interno di una casa infestata da fantasmi, il prosieguo di quello che nel precedente lavoro Lortz identificava sopratutto nella scrittura dei testi e e che qui finalmente, diventa corpo sonoro: “We are not ghosts/ We were never here at all“
Se si esclude From Richard Brautigan, un deviante handclapping-pop quasi alla Roy Orbison, condotto sulle storture del Dylan classico e che si conclude dalle parti di uno sgangherato flamenco, il tono dell’album conserva un incedere tombale che in alcuni casi, come nella bellissima House of Silk, House of Stone, sfocia nell’oscurità delle migliori “murder ballads” dove le presenze non sono traccia di una morte violenta, ma figure che non sono mai state vive se non nella dimensione del ricordo o del sogno: in this house of silk and lace | i am not lonely | i am not angry | Windows are my face | My mother is with me | My sisters are smiling | and laid out before me | i see my bride.
Gli arrangiamenti di Jon Parker, limitati alla posizione sonora del piano e ad alcuni interventi orchestrali sotto il segno dell’essenzialità, si fanno sentire in A Beast I Have Yet to find, con una piccola orchestra d’archi full range, che avvicina il lavoro di Lortz alla capacità di Bonnie “Prince” Billy nella resa drammatica e narrativa degli elementi sonori; sono questi e pochi altri gli unici residui pop, insieme ad una scrittura davvero notevole, con cui Lortz mantiene un contatto, basta pensare a Villain, dove Marissa Nadler alla seconda voce, disegna atmosfere a lei familiari in uno stato di sogno, e Lortz le costruisce intorno una ballata che ancora una volta guarda al Roy Orbison più disperato.
Il cuore è quasi sempre a brandelli nella musica di Lortz, ma in questo caso è possibile raccoglierli ad uno ad uno tra le pieghe di una raccolta tra le più belle e ispirate della sua produzione.
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