Irrimediabilmente trascorsi i tempi in cui Tortoise più che entità sonora fu concetto, la parola in più sulle mille ipotesi di futuro prossimo venturo in musica. La band chicagoana divenne praticamente pietra d’angolo, riferimento irrinunciabile e volto pop di quello che ai tempi il solito Simon Reynolds battezzò come post-rock. Mentre oggi lo si è voluto quasi trasformare in un genere, peraltro fossilizzato sul modello parametal di band come gli Explosions In The Sky, venti e passa anni fa rendeva pienamente l’idea di superamento di un limite, più in virtù del percorso che dell’arrivo, linguaggio per artisti dalle personalità più disparate e spesso poco concilianti col facile ascolto. Era suono puro quello dei Tortoise, le cui frequenze hanno raggiunto i luoghi meno probabili, un’influenza onnipervasiva. Molto più di quanto potesse aspettarsi una band nata e cresciuta nel contesto indipendente, adulta e con una formazione non proprio di primo di pelo, senza frontman, senza immagine, strumentale e citazionista, ed erano gli anni 90.
Poi fu mestiere. Un mestiere irreprensibile ma messo al servizio di album ogni volta più decentrati, tendenti all’eccesso, sbilanciati su quel lato jazz fusion che è da sempre, a parere di chi vi scrive, la loro vera spina nel fianco, venuto fuori troppo prepotentemente già con TNT.
Da Standards in poi, dopo aver letteralmente creato un suono quasi (“quasi”) dal nulla, si trovarono in precoce, progressiva, discesa verso l’aura mediocritas dei capifila adagiati sulle proprie stesse glorie passate. Un po’ troppo presto, dopo due dischi e mezzo… L’ultimo Beacons Of Ancestorship, del 2009, se non altro tentava di riprendere le fila di un discorso lasciato a metà, lavorando a togliere e rivelando vieppiù quegli accessi canterburiani che nel tempo erano stati soverchiati da produzioni e sovrapproduzioni eccessive.
La lunga pausa discografica non è stata tale per ciò che riguarda l’attività live; tanto che i pezzi presenti nel nuovo lavoro, sono già stati rodati più volte sul palco, giacché commissionati alla band dal comune di Chicago per una rassegna dedicata alla gloriosa storia del jazz cittadino. L’esperienza è stata per i cinque anche input per la rentrée a pieno regime, che sta alla radice di questo nuovo parto. Che è indubbiamente sentito, sicuramente onesto, certamente impeccabile sul piano formale ma che sorprende giusto il tempo dei due pezzi cantati. Che poi non è neanche una novità nella loro carriera, basti solo pensare alla sciagurata joint venture con Will Oldham, uno di quei casi in cui 100 + 100 fa 1.
Si, perché trovarsi una cover di David Essex (Rock On) in un disco dei Tortoise è in effetti straniante, specie se a cantarlo è un ex U.S. Maple (Todd Rittmann) e specie se il pezzo ha un taglio così ruvido e sbilenco. Al contrario, Yonder Blue, è proprio ciò che ti aspetteresti, il concentrato delle urgenze più stringenti del gruppo, ottimizzate in forma canzone: Bacharach più di Bacharach, Stereolab più di Stereolab, con la voce un po’ precaria di Georgia Hubley di Yo La Tengo (anche questa riprova di una mai dimenticata militanza dal basso) che riesce ad allontanarla dal rischio di stucchevolezza. Il brano era stato sottoposto, in prima battuta a Robert Wyatt, che appena ritiratosi dalle scene ha gentilmente declinato ma quelle linee vocali sono precise per il grande vecchio, e che bella presenza sarebbe stata!
Per il resto, i Tortoise fanno i Tortoise, recuperandosi, plagiandosi, autocitandosi, già dal primo singolo, Gesceap, che è un arzigogolo minimale e retrofuturista in lenta evoluzione/distorsione com’è pienamente nelle loro corde e che è stata, comunque mesi orsono, una gradevole anticipazione. Così com’è pienamente Tortoise, la flagranza elettronica della titletrack che apre il tutto, procedente poi tra pause, accenti e fiati big band, su binari kraut-lounge-jazz. Ox Duke è praticamente un concentrato di tutto Tnt rimestato in poco meno di 5 minuti: sono quindi synth in variante Hancock, sfrigolare di piatti e lunga coda minimale. Shake Hands With Stranger non è da meno: una macchina poliritmica che vagando tra funk e gamelan va a sorreggere un tema cinematico in un amalgama preciso di chitarre, fiati e tastiere. The Clearing Fills è la loro classica sospensione electro/ambient/rock, laddove lo scarabocchio di Gopher Island è uno scherzo Pop Corn in lo-fi, mentre Hot Coffee e Tesseract e la chiusa affidata alla At Odds With Logic s’assestano tra le comode pieghe di un funk rock, à la Sonny Sharrock, quasi del tutto classico e senza sbavature, ma forse proprio per questo fin troppo algido, fin troppo pulito, malgrado i filtri e le distorsioni che screziano i brani da cima a fondo. Osservazione estendibile all’intero album che suona infatti perfetto dall’inizio alla fine, quadrato e senza eccessi, ma che non stride e non incide, che non graffia neanche nei momenti più tesi, troppo ragionato, troppo ben suonato, troppo fusion come di cui sopra.
Gli stessi pregi difettosi che i Tortoise si portano dietro da sempre e da sempre hanno rischiato di apparire soverchianti, seppure mai hanno realmente coperto tutto ciò che di realmente eccelso hanno sempre creato. Ed anche The Catastrophist non sfugge a queste contraddizioni, avendo dalla propria alcuni dei pezzi migliori della loro seconda fase di carriera.
Ma questi sono ormai i Tortoise, prendere o lasciare: quell’anello di congiunzione tra storia e futuro, fattosi storia a sua volta.