“La miglior band francese degli ultimi 300 anni” dice Michael Gira, riferendosi a loro e se l’eminenza grigia (o nera sarebbe meglio dire) si spende in lodi, lo fa con cognizione di causa, avendo prodotto il loro capolavoro, Ego: Echo: album epocale, in quanto riflesso fedele del periodo che lo partorì e ad oggi ancora splendidamente attuale, seppur mai considerato per come si converrebbe.
Dopo una serie di lavori dagli esiti non sempre felicissimi, però mai davvero disdicevoli soprattutto se rapportati alla loro arida contemporaneità, e dopo ripetuti cambi di line-up che hanno portato la band ad incarnarsi definitivamente attorno ad Amaury Cambuzat fondatore storico della sigla (con l’ingresso in pianta stabile dell’ex Bad Seeds e Gallon Drunk, James Johnston), oggi con En France/En Transe (ancora la ripetizione falsata) gli Ulan Bator realizzano uno dei loro album migliori di sempre, producendosi in un lavoro compendiario di tutte le differenti cromie del loro suono, in cui anche le visioni più antiche, sonicyouthiane, risalenti a 2 Degrees o Vegetale trovano una loro giusta ricollocazione, in seno ad un’opera aspra ed intransigente, ipnotica, repulsiva, pochissimo pop (se non in un’ottica molto ampia).
Le influenze, che da sempre fanno parte del loro patrimonio genetico, sono ancora tutte presenti: il kraut rock su tutti, nello specifico di una collerica frontalità industriale à la Faust ultima maniera, in brani come We R You (costruita su un rotolante loop cacofonico su cui, tra stridori, chitarre appena sfiorate e sparute note di piano, emerge una melodia sussurrata, sexy/funebre, che è classicamente Cambuzat). A questa fa eco la conclusiva, delirante, titletrack con il titolo ripetuto ad oltranza (“a répétition”) su una fine virtualmente infinita; mentre l’iniziale Take Off è una processione lenta con dentro ogni possibile forma post immaginabile, dai This Heat agli Slint, che quando sembra ormai tarata su di un’insistita iteratività, esplode letteralmente in ogni direzione. Così come A ham o Bugarach che si direbbero, nel loro approccio sarcastico ma disperante come nelle loro tensioni incontenibili, con la seconda che è un frammento di estetica brutalista camuffata da raga psichedelico, ancora puramente Faust, non fossero, invece, così puramente Ulan Bator.
Song For The Deaf è il seguito ideale dell’Etoile D’Astre dell’album del 2000, mentre Fakir è la coda insistita di un brano inesistente, da cui affiora, sperduta in un oceano noise, un’oscura melodicità. Colère e Jesus B.B.Q, invece, disturbano con la loro ricerca sui limiti ultimi dello straniamento timbrico, pur se inserite in un lavoro intransigente e scorbutico; che si offre come esperienza totalizzante e distruttiva; senza compromessi, senza offerte o concessioni; che immaginare rieseguito dal vivo, si offre già da adesso come evento irripetibile.