L’utilizzo dei filmati d’archivio ha attraversato tutta la storia del Cinema fino al delinearsi dell’era postmediatica. Dalla spinta delle avanguardie, nello spirito duchampiano dell’objet trouvée, fino al contributo significativo del cinema sperimentale tra gli anni settanta e gli anni ottanta, il termine “found footage” ha indicato prassi diverse dalla semplice conservazione di materiali. La dimensione spesso privata, altre volte eccedente e legata agli scarti di agenzie destinati al macero, oppure alla veloce deperibilità degli ephemeral movies, descrive un filmmaker dall’identità oscura, “nascosto” dietro la storia, ma irrimediabilmente incorporato nella stessa. L’artista che lavora con le immagini ritrovate e i fondi d’archivio compie spesso un’operazione metastorica, cercando elementi nuovi all’interno di immagini che parlano di un mondo apparentemente conosciuto. Si può parlare di ri-scrittura, ri-contestualizzazione, ri-mediazione, ri-utilizzo. Sono accezioni molto vaste e complesse, ma hanno in comune quella che Lisa Patti, acquisendo una lezione di Vivian Sobchack, definisce con grande acume come “disparità temporale” tra due percezioni soggettive.
Nei giorni del Lockdown, in forme molto diverse, il ricorso ad archivi pre-esistenti o all’utilizzo di dispositivi ormai desueti per produrre immagini sospese nel tempo, ha riattivato da diverse parti del globo la possibilità di combinare immagini “ritrovate” con la forma canzone, in quel territorio di convergenza che è il videoclip.
Su indie-eye, prima di altri, ci siamo interessati a questo incontro, raccontando per esempio il lavoro di Stefano P. Testa, ma anche intercettando segnali improvvisi, come quello dell’antropologa visuale Kersti Jan Werdal per i No Age, il lavoro combinatorio di Raphaël Levy e più recentemente il video di noWareArt, forse uno dei più potenti nel combinare immagine “found”, materiale “originale”, immagine scientifica, come occhio spalancato sull’infinitamente lontano-vicino che l’isolamento ha dischiuso.
L’ultimo esempio in ordine di tempo è lo splendido lavoro che Verner, cantautore bolognese di origini campane, ha fatto insieme alla montatrice Silvia Biagioni.
L’occorrenza è “Viaggiare da Solo“, nuovo singolo che anticipa il terzo album sulla lunga distanza intitolato “Altopiano“.
Questo invito al viaggio, si è intersecato con quello di Anna Bavicchi, viaggiatrice e filmmaker amatoriale, i cui super 8, realizzati a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 durante una serie di viaggi in Afghanistan, Russia e Cina, sono conservati negli archivi di Home Movies – Archivio Nazionale del film di famiglia di Bologna. La Biagioni, montatrice e documentarista di base a Londra, ha orientato il lavoro di Verner consentendo l’incontro tra Anna e la sua musica, indicandoci nella sovrapposizione temporale uno sguardo che molto più di qualsiasi altra cosa, dal passato ci racconta la forza dei gesti ormai perduti nell’accelerazione globale conosciuta prima ancora che la giostra si fermasse.
Verner – “Viaggiare da Solo” – Regia Verner / montaggio Silvia Biagioni
“Viaggiare da Solo” il making of. Intervista a Gianandrea Esposito (Verner) e Silvia Biagioni
L’incontro con l’archivio del film di famiglia di Bologna è stato casuale o avevate già pensato al found footage per questo video?
Verner: Dopo aver terminato la realizzazione del nuovo album ho cominciato a pensare a quale canzone poteva essere più adatta per un video di anteprima. Conoscevo già l’archivio Home Movies, considerato che abito anche io a Bologna. Pensando a una possibile collaborazione con loro mi è venuta in mente l’idea di rappresentare un viaggio che si svolgesse in una dimensione temporale diversa, creando una dialettica tra il “presente” della canzone e il “passato” delle immagini. In particolare una parte del testo della canzone si ricollegava a questa idea: “Mi piace viaggiare da solo/ Avere il tuo ricordo che mi fa compagnia/ Sentire quanto sei importante/ Raccontarti tutto quel che vedo”.
Ho quindi presentato un progetto all’Archivio e a quel punto è iniziato un processo di avvicinamento con lo staff di HomeMovies, che mi ha anche invitato a partecipare a un workshop da loro organizzato nell’ambito di Memoryscapes, dove venivano affrontate le varie tematiche relative all’utilizzo dei loro filmati. Durante il workshop ho anche conosciuto Silvia Biagioni che mi ha poi aiutato “a distanza” mentre montavo il video durante la quarantena.
Recentemente abbiamo letto un brutto articolo che definiva il found footage come ‘riclaggio’ . C’è molta confusione e approssimazione al riguardo, soprattutto nell’ambito del videoclip. Per noi è invece molte altre cose: prassi, ricerca, lavoro d’archivio, tecnica e anche linguaggio. Per voi?
Verner: Nell’avvicinarmi a questo mondo ho capito meglio quanto sia complesso e impegnativo il lavoro da svolgere per gestire un archivio di questo tipo. Personalmente avevo le idee abbastanza chiare rispetto al tipo di materiale che cercavo e trovare schede già strutturate e interlocutori che sapevano come indirizzarmi è stato fondamentale, da solo non avrei mai avuto tempo ed energie per intraprendere una ricerca d’archivio da zero. Questo per sottolineare l’importanza delle professionalità che lavorano in questo settore. Sono perfettamente d’accordo con te, l’idea di “riciclaggio” è riduttiva, perché è l’uso espressivo che fai del materiale a fare la differenza. Chiaramente la critica di “riciclaggio” non ha senso quando il materiale viene utilizzato in ottica documentaristica, ma in realtà è ancora più interessante vedere come il found footage possa essere ”contaminato” da una seconda narrazione che può distaccarsi molto da quella originale, anche attraverso altro materiale con cui viene combinato, come ad esempio nel caso del videoclip, una canzone. Da questo punto di vista l’uso di una canzone si distacca dall’idea di “sonorizzazione” ed ha più a che fare con il creare appunto una seconda narrazione. Durante il workshop Memoryscape abbiamo visto diversi casi in cui l’uso del materiale di archivio porta a soluzioni fresche e originali, in cui la storia che viene raccontata può reinventare, in modo più o meno forte, la rappresentazione dei filmati. Rispetto a questo tema mi ha colpito la discussione sulla dimensione “etica”, sulla sensibilità che bisogna trovare nel conciliare la propria visione e libertà espressiva con un uso del materiale che può essere anche molto creativo.
Silvia Biagioni: Il termine riciclaggio ha innegabilmente un’accezione negativa, mentre il lavoro sul found footage può essere a mio avviso visto come una forma di ri-uso. E’ comunque una definizione molto riduttiva, o incompleta, perché se certo si parte dall’uso di materiali pre-esistenti, è anche vero che ciò che conta davvero sono la narrazione, lo sguardo, le sensazioni che si possono suscitare attraverso l’uso di questi materiali, che vanno valorizzati oltre che utilizzati.
C’è anche un lato etico, che ogni archivio affronta differentemente, e che nel caso di Home Movies e’ stato molto ben definito sin dall’inizio. Per quanto mi riguarda era comunque fondamentale uscire dall’ottica del videoclip inteso in senso classico per avvicinarsi piuttosto al linguaggio del cinema sperimentale, anche se ovviamente talvolta i due ambiti si sovrappongono.
Penso che il found footage, particolarmente di quest’epoca, quindi il super otto amatoriale, laddove anche il termine amatore, così come ri-uso, è da vedersi in un’ottica “migliorativa”, sia particolarmente adatto ad illustrare la bellissima canzone di Verner, proprio grazie a quell’aura che associamo alle sensazioni della memoria e a una particolare forma di identificazione o empatia che credo sia propria di questo formato.
Quindi il found footage non e’ assolutamente in questo caso una scelta di sola forma, ma è il linguaggio ideale per illustrare il viaggio emotivo in cui Verner ci sta portando.
Come avete scelto il fondo Anna Bavicchi?
Verner: dopo aver presentato il mio progetto, il team di Home Movies ha selezionato alcuni fondi, circa una decina. Li abbiamo guardati insieme e alla fine la scelta è ricaduta senza alcun dubbio su Anna Bavicchi, perché era il fondo che si prestava maggiormente a rappresentare l’idea di viaggio che avevo in mente, un viaggio di avventura e di incontro con il diverso, mentre gli altri erano più viaggi di famiglia o di coppia in senso più convenzionale. E poi c’era Anna…
Da quel fondo, che immaginiamo molto vasto, come avete deciso la narrazione e il montaggio ?
Verner: Ho visionato tutto il fondo nella sede di Home Movies, selezionando il materiale che poteva essermi utile per il video, rispettando anche alcuni limiti quantitativi. Ho proceduto in questa fase in modo anche intuitivo, pensando alla canzone e a come poteva combinarsi con il materiale che guardavo. Alla fine avevo 1 ora e 20 minuti di materiale, dal quale ho poi iniziato il montaggio. Avendoci lavorato in periodo di quarantena, ho passato veramente tanto tempo su quei filmati, imparandoli praticamente a memoria. Ho sperimentato sia l’idea di mescolare i diversi viaggi nei vari paesi, ovvero Afghanistan, Cina, Russia, Perù e altri, sia quella di mantenerli invece compatti tra di loro. Alla fine ha prevalso la seconda scelta con alcune eccezioni. La relazione tra immagini e canzone è l’elemento guida principale, cercando di creare un gioco di rimandi ma evitando di essere didascalico. Non a caso la prima apparizione di Anna avviene in corrispondenza del verso “Avere il finestrino tutto per me”. Lo scambio di impressioni con Silvia Biagioni e con il team di Home Movies è stato importante perché mi ha fatto passare da una impostazione da videoclip con montaggio preciso e ritmato, a un montaggio volutamente “grezzo”, con un’introduzione più graduale del personaggio di Anna e un pizzico di follia in più. Ho trovato quindi una una coerenza di sguardo, quella di un viaggio via terra, oltre a una narrazione che parte da paesaggi più urbani per “allontanarsi” sempre di più… I viaggi di Anna vengono rappresentati come una sorta di danza che attraversa un mondo che ora ci appare lontano. E’ anche una danza di sguardi, spesso pieni di curiosità e di voglia di scoprire e mostrarsi, a volte invece diffidenti o imbarazzati. Una danza che testimonia l’incontro con il diverso.
Noi ci siamo innamorati di Anna. Questa sua leggerezza, il suo mettersi in gioco durante i viaggi. Abbiamo notato che l’avete spesso lasciata in campo, fino ad isolare i momenti in cui è sola con le onde del mare. Diventa allora un narratore e un personaggio. È così e cosa vi è piaciuto di lei?
Verner: Anna è un personaggio molto forte, io l’ho pensata come una parte di me, curiosa e aperta e più in generale una gioia di vivere che si esprime attraverso il viaggio e l’incontro. Anna rappresenta anche una parte di noi che rischiamo di perdere, una sorta di “anima persa”, riprendendo il verso finale della canzone. Detto questo, per me la narrazione è invece guidata principalmente dalla canzone, che trova echi e amplificazioni nei viaggi di Anna.
Il found footage, soprattutto se frutto di una ricerca e del lavoro sui materiali d’archivio è diametralmente opposto alla frammentazione delle sequenze per tipologia e keywords dello stock footage. Consente infatti di entrare all’interno di un mondo o dell’aura lasciata da quel mondo. Voi cosa ne pensate, potrebbe essere una via importante per i videoclip in un momento come questo?
Verner: In realtà da quello che ho visto l’uso di keywords, più o meno descrittive, viene adottato anche negli archivi e facilita un primo screening del materiale. La scelta di utilizzare un fondo filmico unico non era l’unica possibile per questo video clip, anche una combinazione di diversi viaggi da fondi diversi all’inizio era un’opzione. Rispetto allo stock footage non ho molta esperienza e lascio la parola a Silvia….
Silvia Biagioni: Non è facile fare un paragone tra stock footage e found footage o definire la relazione che c’è tra i due; io li vedo come due mondi molto distanti, entrambi a loro modo “ostracizzati”. Da un lato la figura dell’amatore, il filmmaker “non professionista”, è stata rivalutata solo di recente, trovando un suo spazio e riconoscimento in alcuni archivi dedicati – e in questo senso possiamo certo dire che l’archivio Home Movies è stato precursore.
Allo stesso modo, chissà che lo stock footage, materiale prodotto in serie, semi-industrialmente, e distribuito in supermercati virtuali in tutto il mondo, non venga un giorno riconosciuto come uno dei look distintivi della nostra epoca… Questa è ovviamente una provocazione, ma al tempo stesso un invito a ricercare il potenziale di un formato anche nel détournement di quella che è la sua fruizione principale.