Con l’ultimo disco Conatus (2011), Zola Jesus sembrava voler mettere a fuoco il suo ambizioso progetto di avant pop inquieto, giocando con addizioni e sottrazioni. Meno spazio a rumori, riverberi e frastuoni; più lucidità nell’interpretazione vocale a fronte di una lunga rinconciliazione col passato da studentessa d’opera; la piacevole, quasi ossimorica introduzione di metalliche percussioni dance in un contesto ancora prevalentemente improntato al tormento. Il risultato funzionava, ma quell’ambientarsi di soppiatto nel radio-friendly suonava più un passaggio intermendio che un capitolo cruciale come lo furono pochi anni prima i due meravigliosi EP Stridulum e Valusia.
Versions torna a parlare di questo lento avventurarsi nella luce, riproponendo esclusivamente pezzi dalla tripletta (più l’inedito Fall Back) arrangiati per il Mivos Quartet da nientemeno che JG Thirlwell. Dopo le ‘concessioni’ a David Lynch (il remix di In Your Nature) e Jherek Bischoff (che arrangiò Lick The Palm of The Burning Handshake per un concerto dal vivo), la nota recalcitranza di Nika nell’affidare i propri brani ad altri non poteva che cedere di nuovo di fronte a un altro grande maestro. Conosciuto ai più per i laceranti, leggendari esperimenti a nome Foetus, Thirlwell, eroe assoluto della nostra, vanta un’inarrestabile carriera da eclettico compositore, tra classica, rock e industrial, una varietà che si sposa alla perfezione con l’impresa di spogliare, decomprimere ed ‘imbellire’ il catalogo più tonante e incisivo di Zola.
Arrangiati a distanza, mentre la nostra calcava le scene dell’interminabile tour mondiale di Conatus, i brani nacquero per un’esibizione di stampo highbrow. Nella primavera del 2012 venivano infatti presentati al Guggenheim di New York per un live speciale che Zola racconta come un momento di cruciale transizione: la voce in primo piano, i testi forti e chiari, i beats rimasti a demistificare il contesto, Thirlwell a condurre il quartetto. E il Guggenheim. Versions evoca tutti questi elementi, ma anziché museificare i nove brani sembra liberare il loro lato più romantico ed evocativo, mettendo finalmente in primo piano quella mallebilità e quel dinamismo di voce e personalità che Nika ci lasciava intravedere in Conatus. I beats martellano ancora dove alcun palliativo faticherebbe ad arrivare e, contro ogni facile previsione, non sempre i brani sono ridotti all’osso, talvolta escono persino irrobustiti dalla sontuosità e dal vigore degli archi.
Il nuovo Fall Back, ad esempio, parte nenioso e ottenebrante nel consueto stile, per poi costruire, attraverso un ponte di corde appena pizzicate, un crescendo grandioso di grandissima commozione. È il picco del disco, senza dubbio, e ricorda i gloriosi movimenti del ‘vecchio’ Poor Animal. Allora Zola cantava “We are all delusional“, qui dichiara di esser disposta ad andare in capo al mondo per amore. Momenti di simile intensità non si ripetono abbastanza. Sea Talk (terza comparsa nella dicografia di Zola, quasi una cartina al tornasole della sua evoluzione) e Night, due dei suoi pezzi capitali, suonano enfatici a sufficienza per misurarsi con il vigore degli originali, ma troppo poco trasformati per richiedere nuove chiavi di lettura o un’attenzione particolare. Non c’è quell’impronta trasformistica o quel tributo allo strumento, gli archi, che furono ad esempio le registrazioni con il Brodsky Quartet di Björk.
La vera differenza la fa la voce, messa a nudo per forza di cose, non più accompagnata da quei mille layers di se stessa. Rimane un soffuso vociare in apertura di Run Me Out, ma nel tono minatorio dell’orginale ora si fa strada anche qualche crepa di debolezza. Anche i testi qui scoprono il loro lato più umano: quando canta “I am bored / I am tired“, Sea Talk sembra per un attimo un’altra canzone. Versions edifica con stile su questo territorio di mezzo che Zola è andata costruendo negli ultimi anni. La sua evoluzione sembra rallentarsi di nuovo, ma l’emergere di inattesi punti di forza non fa che complicare le nostre aspettative per il futuro.