Fra le sorprese dell’edizione 2015 di Fabbrica Europa, manifestazione culturale che ormai da anni saluta a Firenze l’arrivo della primavera, possiamo annoverare l’esplosione di meticciato elettronico che ha caratterizzato la rassegna targata Voodoo Rebel. Fin dagli esordi la Voodoo Rebel – etichetta fondata nel 2011 grazie agli sforzi congiunti di due collettivi di produttori fiorentini (Numa Crew e Ckrono & Slesh) – si è focalizzata sulle più ardite tendenze dell’elettronica globale, nell’ottica di una ricerca che potesse coniugare dubstep e UK bass con sonorità africane e tropicali. Nel solco di questa tradizione si inserisce la serata di venerdì 8 Maggio, che ha visto la techno europea più ricercata fondersi con la tradizione percussiva dell’emisfero australe, in un mélange di suoni opportunamente ribattezzato Future Roots.
L’apertura delle danze è affidata a DJ Khalab, pseudonimo dietro al quale si cela Raffaele Costantino, produttore, conduttore radiofonico e giornalista musicale. Dei tre ospiti presenti stasera, Khalab è senza dubbio quello che orienta in misura maggiore i propri beat verso la dimensione dell’ascolto: non cede mai alla tentazione del 4/4, impreziosendo i break di cassa e rullante col timbro acuto dei djembe; la funzione melodica, che in un altro contesto sarebbe affidata ai pad di sinth, è svolta in maniera egregia dai canti tipici della tradizione africana. Ne risulta un procedere ipnotico, riflessivo e quasi ambient, che ben prepara al crescendo della serata.
Dopo Khalab è il turno del fiorentino Cristiano Crisci; un tempo attivo con lo pseudonimo di Digi G’Alessio, l’artista è ormai celeberrimo anche all’estero con la nuova ragione sociale Clap! Clap!. Come il compagno di etichetta (sia Costantino che Crisci pubblicano per la londinese Black Acre), Clap! Clap! mescola beat elettronici e percussioni afro ma – vuoi per una peculiare inclinazione stilistica, vuoi perché la serata è ormai entrata nel vivo – in questo caso è la trance più tribale a farla da padrone. E allora via di cassa fissa, coadiuvata in questo frangente dai suoni scuri dei dunun.
Il tarantolato Crisci si agita davanti alla consolle, le percussioni imperversano punitive per l’intera durata del set, e il pubblico si scalda a dovere. Poco a poco, la disposizione mentale degli individui presenti in sala regredisce a un livello quasi primitivo, permettendo loro di entrare in connessione con l’aspetto primordiale e catartico del ritmo. Quando finalmente Branko (al secolo João Barbosa) irrompe sulla scena, trova ad aspettarlo centinaia di selvaggi abbrutiti. Ma il portoghese, evidentemente, è avvezzo a trattare con le bestie feroci: dalla sua postazione si sprigiona un flusso continuo di vibrazioni etniche digitalizzate, che parte sommesso, ma aumenta progressivamente in velocità, spingendo l’esaltazione dell’audience al parossismo.
Barbosa spazia con disinvoltura dal kuduro al baile funk – riproponendo di fatto la miscela musicale che ha fatto la fortuna dei suoi Buraka Som Sistema – e intercetta egregiamente gli umori del pubblico fino a tarda notte. Il suo set assume i contorni di una sfrenata immersione nella tradizione popolare lusofona, una ricerca delle radici comuni che caratterizzano la musica da ballo sviluppatasi lungo l’asse Angola-Portogallo-Brasile. Un modello di dancehall globale, capace di funzionare tanto qui nell’opulenta Firenze, quanto in una baraccopoli di Luanda, o in una favela di Rio de Janeiro. Un momento di condivisione atavica che – fosse anche per un batter di ciglia – riesce a far convergere gli umori di almeno tre continenti. Muito, muito foda!