È un ritorno alle origini quello di Wildbirds & Peacedrums, in ogni senso; li avevamo lasciati dalle parti di Rivers, raccolta costituita da due precedenti Ep del duo svedese e che in qualche modo sembrava mitigare la furia improvvisativa delle prime due uscite sulla lunga distanza, privilegiando un approccio più elaborato e teso a valorizzare il lavoro di scrittura di Mariam Wallentin.
Durante questi cinque anni Mariam si è occupata anche del suo progetto solista, pubblicando un album con il moniker di Mariam the Believer, di cui abbiamo avuto modo di parlare approfonditamente insieme alla vocalist di origini iraniane con una lunga intervista, che si può leggere su indie-eye da questa parte.
Blood Donation cominciava in un certo senso dove finiva la sperimentazione di Wildbirds & Peacedrums, introducendo la strumentazione di una band più strutturata e pur facendosi coadiuvare dalle percussioni del compagno Andreas Werliin, portava dentro alcuni componenti della Fire! Orchestra di Mats Gustafsson, una delle formazioni impro-jazz scandinave più vitali del momento, dalla quale la Wallentin desumeva la forza etnomusicale, scrivendo una manciata di brani sanguigni, radicati alle terre di più latitudini (l’iran, i ritmi afroamericani, il folk scandinavo).
Cosa rimane di questa lunga transizione è testimoniato dal nuovo capitolo a nome Wildbirds & Peacedrums, dove la coppia sente nuovamente l’esigenza di cambiare le carte in tavola scarnificando ulteriormente il sound del loro progetto, così da togliere qualsiasi suono estraneo alla voce e ai tamburi, ripartendo in parte da Heartcore ma spingendo avanti la ricerca in una complessa e infuocata poliritmia, più aderente all’esperienza su palco, tanto da registrare l’intero lavoro in presa diretta e in un unico take per catturare l’istantaneità del duello tra batteria e voce, aggiungendo in un secondo momento alcune percussioni addizionali e le sovrimpressioni vocali più complesse, che offrono all’intero spettro sonoro un minaccioso sfondo corale di rara intensità e bellezza sacrale.
Una riduzione radicale che al contrario lascia libero il dialogo tra le parti, con la scrittura di Mariam a disegnare intarsi bellissimi e a delineare una scrittura personale tra funk, Jazz e soul dove i riferimenti, oltre all’amata Alice Coltrane, raggiungono le vette di un R&B tribale e danzante (Keep some Hope) vicino per certi versi agli episodi più ossessivi di una formazione come Rip Rig + Panic, il cui trade union è l’apolide svedese Neneh Cherry, non a caso tornata ad una forma scabra come quella di Blank Project, album molto vicino alla filosofia di Wildbirds & Peacedrums.
Da parte sua, Andreas Werliin riesce a far cantare i suoi tamburi con una varietà timbrica e un assalto sonico impressionanti, la sensazione che offre Rhythm sta tutta nel significato letterale del termine; esattamente come per il gospel, l’essenzialità degli elementi non corrisponde alla complessità dell’ordito, tanto da restituire un senso di rigore modale e allo stesso tempo quello spaesamento che eleva lo spirito dalla terra.
Ma ciò che conferma Wildbirds & Peacedrums come una delle cose più belle che sia capitata alla musica, è la loro capacità di stare al centro, tra improvvisazione e sintesi comunicativa, tensione e libertà, racconto e ritmo.