“I am ophaned… / well i’m the highjacked and the alien / i am the deserted subject” (Yasmine Hamdan, Balad)
Al Jamìlat, per chi scrive, è uno degli album più belli del decennio. Il secondo lavoro solista di Yasmine Hamdan, prodotto insieme a Luke Smith e Leo Abrahams, ritrova il groove e la capacità di forzare i confini della forma canzone, come accadeva nella produzione dei Soapkills, la seminale band libanese che ha aperto la strada a tutta la scena mediorientale indipendente, ma che allo stesso tempo, ha indicato una via per tutti quei producers interessati a combinare elementi downtempo con il folk arabo.
Sono passati quattro anni da Ya Nass, il primo album della Hamdan e il secondo capitolo della sua carriera solista appare radicalmente diverso dall’attitudine acustica dell’episodio precedente. Tra elettronico ed elettrico, grazie alle chitarre di Adam Brisben , al contributo del polistrumentista Shahzad Ismaily e al drumming di Steve Shelley, la materia ipnotica e circolare che la musicista libanese trasforma a partire dalla tradizione, scopre un lato alternativo rispetto alla scrittura pop e al modello bristoliano, qui dilatato dal “noise” urbano e da un continuo bilanciamento tra corpo e spirito. Quel paradigma, dal trip-hop alla retorica dei ritmi downtempo, che ad occidente segue quasi sempre una direzione pedissequa e filologica rispetto agli anni novanta, a cavallo tra due mondi trova un nuovo territorio fecondo e creativo.
Per il lancio dell’album la Hamdan si affida per la prima volta al marito, il regista palestinese con cittadinanza israeliana Elia Suleiman, autore di straordinarie commedie surreali e vincitore del gran premio della giuria a Cannes nel 2002 per “Intervento divino“. Il cinema di Suleiman, per certi versi ispirato dalla geometria stralunata di Jacques Tati, è costituito da cellule interdipendenti che mutano a contatto tra di loro e che vengono stilizzate con i tempi e il ritmo della coreografia. La linearità del racconto viene sostituita da una forza combinatoria che sembra regolata dalle leggi del caos.
Irresistibili, commuoventi, drammatici e comicissimi, i film di Elia Suleiman sono davvero unici nella loro costruzione centrifuga e possibile.
Tutti questi aspetti tornano nella forma breve del video musicale con due clip realizzate per la promozione di Al Jamìlat, apparentemente opposte, in realtà del tutto convergenti nella rappresentazione di una femminilità incompromissoria, che allo stesso tempo non rinnega le proprie radici.
Yasmine Hamdan – La Ba’den – Dir: Elia Suleiman
Il primo video, realizzato sul brano La Ba’den, è un ritratto intimo della stessa Hamdan, descritto durante il viaggio dal suo appartamento allo studio di registrazione dove lavora. La propensione di Suleiman alla gestione attentissima dello spazio è chiara nella sequenza dell’ascensore, dove la libertà di Yasmine è compressa tra il corpo di due uomini (uno è lo stesso Suleiman, attore silente nei suoi stessi film). Quello che interessa al regista palestinese è il movimento, la danza come principio unificatore di tutti gli spazi.
Yasmine Hamdan – Balad – بلد ياسمين حمدان – Dir: Elia Suleiman
L’ansia di libertà diventa più drammatica nel rapporto della stessa Hamdan con la sua città. Girato per le strade di Beirut e pubblicato tre settimane fa su youtube, il video di “Balad” (paese) è uno sforzo produttivo notevole e rimanda direttamente al paesaggio, la struttura e le coreografie dei lungometraggi di Suleiman. Con un incedere più affine al dramma politico-personale, Yasmine esce da un ingorgo e attraversa i confini imposti dalla società elargendo quella forza interpretativa destinata alla protagonista di un musical. La corruzione, le armi, il parlamento, i media. Un circo che Suleiman denuda e sfonda, letteralmente, con l’energia performativa di Yasmine. Dall’invettiva alla danza, il video assume progressivamente un altro registro, che è quello del movimento collettivo, capace di trasformare la visione del paesaggio attraverso una sua diversa organizzazione. Straordinarie le coreografie, così naturali e connaturate con la strada, come accade nei momenti migliori del cinema di Suleiman, e straordinaria la collocazione astratta di due “componenti” della band, non solo perché irride la retorica del videoclip tradizionale, ma perché uno dei due è un cameo dello stesso Suleiman, ingessato e costretto dentro un’ambulanza, mentre suona con difficoltà il rullante di una batteria.
Questa mutazione a vista dell’orizzonte a cui il cinema di Suleiman ci ha abituati, come se lo sguardo si incarnasse in un palloncino rosso che vola alto, interpreta con i toni della commedia coreografata la sconnessione che la Hamdan esprime rispetto al suo paese e agli equilibri internazionali: “i am the citizen deposed, hostage to the security situation“. Una condizione liminale che è la stessa individuata da Jim Jarmush in quel club di Tangeri, dove Tilda Swinton e Tom Hiddleston incontravano la dimensione del sogno.
Al Jamìlat sul sito di Materiali Sonori, distributore italiano.