domenica, Dicembre 22, 2024

Zu – Cortar Todo: Ogni apocalisse è una rivelazione. L’intervista a Massimo Pupillo

[La foto di Copertina è di Danilo Giungato]

Non lo sappiamo ma siamo in guerra. Non si sa esattamente quando sia stata dichiarata, né da chi e con quale esercito. Se è invisibile di certo i suoi effetti sono sotto i nostri occhi. Una guerra condotta non tanto con le armi convenzionali ma soprattutto attraverso la diffusione di un determinato tipo di pensiero in lotta che vuole soggiogare, plasmare, deridere ed eliminare la parte più profonda dell’essere umano, quella spirituale. Un pensiero che passa per i mass media, le scuole, i poteri istituzionali, gli stili di vita indotti. Perfino il mondo artistico non ne è immune. Non rimane altro che invocare un’apocalisse purificatrice che possa spazzare via il vecchio mondo per accoglierne uno nuovo.

Ta i cantori di questo cambiamento epocale ci sono gli Zu.  Cortar Todo, è il loro recente strumento per resistere all’avanzata del contemporaneo pensiero negativo. Dopo la pubblicazione di quel gioiello a nome Carboniferous, spartiacque fra il primo periodo avant-jazz e l’attuale, fatto di una personalissima mistura di post-punk, industrial e metal, il gruppo romano ha dovuto affrontare un terremoto interno: l’abbandono del batterista Jacopo Battaglia e lo spettro dello scioglimento. E’ necessario allora un periodo di raccoglimento ed ecco che dalle profondità dell’Amazzonia dove Massimo Pupillo e Luca T. Mai hanno trovato ormai il proprio luogo dell’anima, nascono i tre tasselli della cosiddetta “trilogia della guerra”. Primo capitolo,  Goodnight, Civilization, ep pubblicato nel 2014 che nel giro di soli tre pezzi metteva in musica l’inquietudine e la voglia di rivalsa verso una civiltà al crepuscolo. L’inserimento dietro le pelli di Gabe Serbian dei folli grinders The Locust era ciò che ci voleva per rendere lo stile della band ancora più dinamico e frontale. La seconda stazione è  The Left Hand Path, pubblicato lo stesso anno insieme alla voce degli Oxbow, Eugene S. Robinson. Qui il trio esplorava il campo di battaglia immerso nella notte, muovendosi attraverso suoni ambient, glitch e field recordings. Un unicum nella carriera della band assolutamente spiazzante per molti, il cui senso non è stato completamente compreso, come conferma Massimo Pupillo stesso nell’intervista. Infine, troviamo l’ultimo atto: Cortar Todo, uscito lo scorso marzo 2015 su Ipecac di Mike Patton.

Attraverso la riconciliazione degli opposti, gli Zu sintetizzano gli spunti che le due pubblicazioni precedenti erano riuscite a trasmettere: l’immediatezza, l’urgenza, la spasmodica ricerca di una via d’uscita per quanto riguarda Goodnight, Civilization, e l’inquietudine, tra calma apparente e ricerca interiore di The Left Hand Path.

Della triade, Cortar Todo è il disco più maturo, la presa di coscienza di un uomo che ormai sa in che mondo vive e non deve far altro che assecondare la sua stessa fine: gli insegnamenti della tribù amazzonica Shipibo sono probabilmente i veri protagonisti del disco, trovando spazio anche musicalmente nell’ultima traccia, Pantokrator, dove si può sentire il canto di uno sciamano registrato in diretta. Il resto della tracklist è stato modellato a partire dal metal, materia primigenia e ctonia alla quale viene data, di brano in brano, ora una forma post-punk, ora industrial, ora più noise. I field recordings ampliano lo spettro sonoro dando un respiro cosmico alle composizioni, trasportandoci direttamente nello spazio come ben dimostrato già dalla copertina. Se Carboniferous scavava in profondità nella terra, Cortar Todo si eleva al di sopra del nostro pianeta come un canto, un pianto, un’invocazione, un grido insieme disperato e speranzoso per uscirne purificati. Se c’è una cosa che il trio romano ha sempre saputo dimostrare è la capacità di ripartire da zero. Di reinventarsi, tagliando via tutto ciò che ormai è passato e riguardo al quale non c’è più un legame di appartenenza.

Massimo Pupillo - Foto di Sara D'Uva
Massimo Pupillo – Foto di Sara D’Uva

 Cortar Todo, letteralmente “tagliare tutto”. Titolo lapidario, quasi una sentenza, ma anche programmatico, potremmo dire: un manifesto. Concettualmente, a che cosa vi riferite con queste due parole?

Cortar Todo” nasce principalmente da un’esperienza personale. Dopo lo scioglimento momentaneo del gruppo, sono andato a vivere prima in India per un annetto e successivamente in Amazzonia, dove vivo ormai da due anni. Una volta giunto qui, tramite un antropologo inglese, sono riuscito a entrare in contatto con la tribù degli Shipibo e i loro curanderi, che tramandano di padre in figlio ancora oggi le loro pratiche apprendendole dall’età di cinque anni. Da un mese originario, alla fine ci sono rimasto per nove, divenendo amico di una vegetalista della tribù, il medico tradizionale che lavora con piante ed erbe, chiedendo di studiare con lei. Credevo che l’approccio sarebbe stato molto tradizionale e invece proprio qui ha avuto inizio il mio nuovo cammino. A livello personale, dovevo abbandonare ogni peso e rancore che mi portavo dietro da tutta la mia vita. Se volevo raggiungere un livello di conoscenza ulteriore era necessario tagliare via tutto quello che sapevo da prima. Usò le parole “cortar todo”per descrivere questo processo, e ne ho fatto il mio motto personale. Successivamente con Luca abbiamo discusso di questo concetto e l’abbiamo applicato alla nostra musica: se volevamo andare avanti, dovevamo dimenticarci di tutto e guardarci con occhi nuovi. Non volevamo essere influenzati da pareri esterni, che fossero quelli dei critici o degli ascoltatori, ma volevamo solo esprimere noi stessi nella maniera più spontanea, personale ed anche sincera possibile. Volevamo abbattere ogni filtro frapposto con il messaggio che volevamo lanciare in quel momento lì: adottando l’espressione “cortar todo” e chiamando così il disco, abbiamo reso esplicito tutto questo.

 L’atmosfera generale del nuovo disco è molto tesa, urgente. Una sorta di ricerca purificatrice che anela continuamente per venir fuori e manifestarsi. Una sorta di apocalisse in musica. “Cortar Todo” è la vostra personale visione di apocalisse come Zu?

In un certo senso si. Basta guardarsi intorno: il modo in cui viviamo e sfruttiamo il pianeta è insostenibile e se anche non sarà oggi e domani, qualcosa di grave è destinato a succedere. Il nostro mondo assomiglia in maniera inquietante alla descrizione che si trova in alcuni passi dei Veda indiani sul Kali Yuga: l’uomo è accecato dalla sua idea di progresso tecnologico e non si rende conto che ha ormai mosso guerra alla natura, distruggendo anche sé stesso. Non esistono più luoghi incontaminati, neanche in Amazzonia dove le compagnie petrolifere americane e canadesi inquinano i fiumi e disboscano in maniera illegale; laggiù, questa realtà ti viene sbattuta continuamente in faccia mentre magari qui in Occidente, non vivendolo direttamente, tutto questo è più attenuato. Originariamente, il significato di “apocalisse” è “rivelazione”, quindi poter vedere le cose chiaramente, per quello che sono e senza preconcetti: in questo senso ognuno può sperimentare la propria apocalisse personale. William Borroughs diceva che il paranoico è solo uno che ha capito un po’ meglio come stanno le cose, e credo che molta gente che fino a pochi anni fa non capiva oggi invece incomincia a vedere il mondo da un altro punto di vista. Il problema vero è che bisogna incominciare a modificare il nostro sistema di pensiero, per comprendere quello che ha causato la situazione attuale; bisogna recuperare il contatto con una realtà più profonda e spirituale a cominciare proprio da quegli ambienti come quello artistico e musicale che dovrebbero essere più aperti ma che in realtà non lo sono… penso ad esempio a quando si cerca di parlare di un artista come Hermann Nitsch, e lo si fa in maniera dispregiativa. La responsabilità che sento individualmente e con il gruppo nei confronti di coloro che cercano di abbracciare questa nuova visione è quella di far capire che non si è soli, di spronarli ad andare avanti e di pensare che c’è gente che sta facendo quello stesso cammino, da qualche altra parte.

Musicalmente parlando, l’influenza più ovvia ed evidente che si sente nel nuovo album è il metal, in particolare nelle forme del doom e dello sludge. Ascoltando con più attenzione si notano però anche la presenza di spunti post-punk e, soprattutto, industrial, che percorrono in maniera sotterranea tutta la track-list. Indubbiamente questi ultimi due generi vi hanno accompagnato lungo la vostra carriera ma non sono mai venuti fuori in maniera così preponderante come in “Cortar Todo”.

Per noi il metal è sempre stato un punto di partenza, sia musicalmente che umanamente. Ora come ora credo che il metal, a differenza di altri generi come ad esempio il punk, che si è un po’ arenato su sé stesso, offra maggiori spunti e possibilità di lavorare in particolare sul suono. Gruppi come Earth e Sunn O))) hanno fatto della ricerca sonora il loro ambito, e proprio attraverso il metal, anche per loro punto di partenza. Per me e Luca il metal è come la materia alla quale poi dare ogni volta forme diverse, siano esse post-punk che industrial, genere, quest’ultimo, a cui mi sento maggiormente legato essendo cresciuto con Throbbing Gristle, Coil ed Einstürzende Neubauten. Alla fine, per noi la ricerca principale è finalizzata al suono, visto che contiene tantissime informazioni.

 Emblematico per il discorso da te appena fatto sul metal come materia primigenia ed archetipica, è a mio avviso un pezzo in particolare, ovvero “No Pasa Nada”. Com’è nato? Cosa rappresenta all’interno dell’album?

“No pasa nada” è un’espressione spagnola che usano in Amazzonia, un avvertimento per consigliarti di non far passare l’oscurità dentro di te, e quindi di stare protetto entro il tuo recinto sacro. Per noi questo disco è un disco di guerra, e lo affermiamo sin dal primo brano: non troviamo i carri armati e gli eserciti in mezzo alle strade ma un certo stato di emergenza è percepibile. Una guerra invisibile ma per certi versi anche molto visibile, visto che si mettono a rischio l’ambiente, l’economia, certe fasce della popolazione, la nostra salute. Se uno lavora sui filtri che continuamente gli vengono posti di fronte può accorgersi che si trova immerso in una guerra mondiale che è molto diversa dalla prima e dalla seconda. “No Pasa Nada”, quindi, è il momento del disco in cui si cerca di invocare protezione contro questa oscurità, creando il proprio spazio interiore per poter meglio osservare quello che succede fuori.

Zu live - foto di Danilo Giungato
Zu live – foto di Danilo Giungato

 Sembra chiaro, a mio avviso, che ogni nota contenuta nel vostro disco abbia una sua storia e un senso preciso. Sono molto interessanti i field recordings che spuntano in mezzo al caos sonoro, dando maggior respiro ai pezzi. Che posto occupano e qual è il loro senso nell’economia generale dell’album, a livello musicale e non?

“Cortar Todo” contiene vari field recordings fatti e scaricati da più fonti. Il disco si apre con dei suoni registrati dalla NASA e che sono le frequenze dei pianeti nello spazio. L’idea che volevamo trasmettere attraverso questi suoni era quella di offrire un’altra prospettiva, globale e cosmica per far si che, osservando gli eventi dall’esterno, ci si rendesse conto di come la Terra non sia solo un posto meraviglioso e all’apparenza pacifico ma anche dilaniato da quella guerra invisibile a cui abbiamo accennato. Ciò è esplicitato non solo da un punto di vista musicale ma anche visivo, con la copertina che ritrae il nostro pianeta sormontato da un’enorme conchiglia, o meglio un cratere, che può essere visto solo astraendosi e portandosi al di sopra di tutto ciò che ci circonda sulla Terra. Il nostro intento era proprio quello di lanciare l’ascoltatore nello spazio per ampliare il suo sguardo sul mondo. Il momento di totale astrazione è però “Serpens Cauda”, nome di una costellazione e che letteralmente significa “coda del serpente”, fatto esclusivamente di field recordings: abbandoni qualsiasi cosa e sei completamente fuori da tutto, anche dalla musica degli Zu.

Infatti “Serpens Cauda” da l’impressione di essere stata messa lì apposta per dividere in due la tracklist: da quel momento in poi è come se la musica subisse una fortissima accelerazione sempre più vorticosa. “Conflict Acceleration”, così breve e veloce, sembra un piccolo meteorite in rotta di collisione con la Terra. Quanto più ci si avvicina alla fine dell’album, maggiore è la sensazione che la musica voglia trovare urgentemente una via d’uscita, uno sbocco per non morire soffocata.

E infatti verso la fine troviamo “Vomitorium”, il pezzo più metal del disco: per noi è il momento liberatorio in cui cerchi di far uscire tutto quello che più ti fa male e tutto ciò che ti è stato inculcato da sempre, facendolo uscire proprio fisicamente come vomito, come pianto, come forma purgativa e purificatrice. In chiusura c’è “Pantokrator” fatto a partire dal field recordings del canto di uno sciamano Shipibo su una linea di basso quasi contrappuntistica. Anche se non si direbbe è un canto di speranza: è il nostro modo per augurare che un certo tipo di tradizioni oggi ritenute delle semplici superstizioni dal mondo occidentale, siano invece recuperate e non dimenticate.

 Zu – Conflict Acceleration (videoclip – regia Sara D’Uva)

 

Sul vostro disco precedente, “The Left Hand Path”, la presenza dei field recordings è preponderante e fondamentale. C’è stata una qualche influenza da questo punto di vista su “Cortar Todo”? O avete deciso di inserirli in maniera indipendente da “The Left Hand Path”?

No, non è stato indipendente. “The Left Hand Path” è un disco che è stato capito pochissimo e forse, secondo me, complice di ciò è stato il fatto che l’abbiamo fatto uscire subito dopo la nostra pausa: probabilmente è stato un azzardo, anche un atto abbastanza sfrontato, e un po’ di persone sono impazzite nel ritrovarsi fra le mani un disco del genere dopo tanto tempo. Ma ciò che si sente su “The Left Hand Path” è sempre stato presente nei nostri dischi: tutto, dai temi ai suoni, ci ha sempre accompagnato, solo che su quel disco era esplicito per la prima volta. In sostanza, abbiamo deciso di fare outing e di non tenere nascosto quest’aspetto fondamentale del gruppo, che è poi ciò che siamo davvero e che ci ha sempre caratterizzato. Non siamo qui per fare successo e per noi poterci esprimere liberamente è già un successo.

 Gli Zu sono nati come band strumentale che ha lasciato parlare sempre gli strumenti, anche se negli anni vi siete avvalsi delle collaborazioni con voci importanti come quelle di Mike Patton, Eugene S. Robinson o Barney Greenway dei Napalm Death. Su “Cortar Todo” non troviamo un cantante vero e proprio ma la voce rituale dello sciamano che recita in “Pantokrator”, e questa scelta, a mio avviso, è molto interessante e caratterizza ancora di più l’album. Che rapporto avete con lo strumento voce?

Abbiamo un rapporto di così grande rispetto con la voce che abbiamo deciso di non usarla. E’ naturalmente uno strumento incredibile perché parla direttamente dall’essere umano. Ma sin da subito noi abbiamo deciso che non ne avevamo bisogno perché la nostra ricerca sonora si è concentrata principalmente sul suono, grazie agli strumenti: quello che volevamo dire lo stavamo dicendo adeguatamente già così. C’è da dire anche che l’uso, ormai totalizzante, della voce è diventato un po’ una convenzione, visto che ovviamente la voce catalizza l’attenzione. La nostra visione degli strumenti è sempre stata molto più anarchica, nel senso che ogni singolo individuo ha la sua potenzialità e la esprime armonicamente con agli altri. Non esiste per noi un unico strumento solista, neanche il sassofono, che non è più solista di quanto possa esserlo il basso e la batteria, la quale per me ha delle peculiarità non solo ritmiche, ma anche armoniche incredibili. Se però si mette la voce all’interno di questo contesto si rischia di catalizzare l’attenzione solo su questo strumento. Ciò non toglie che quando abbiamo trovato delle voci che si inserivano bene nella nostra musica portando qualcosa di particolare, le abbiamo usate volentieri. Gli Shipibo usano la voce per curare le persone: per loro il canto ha un effetto curativo. Questo è un modo profondissimo di utilizzare la voce e dimostra quanto vada utilizzata bene e responsabilmente, visto che è lo strumento principe dell’essere umano, nonché degli uccelli.

Dalla voce ad un altro strumento: la batteria. Il vostro attuale batterista, Gabe Serbian dei The Locust, ha un approccio abbastanza differente rispetto al modo di suonare che aveva Jacopo Battaglia, a mio avviso. Erano d’impatto entrambi ma Serbian ha un’attitudine per certi versi più metal e su “Cortar Todo” riesce ad unire la potenza del tocco con una (apparente) semplicità nel drumming. (N.d.a: al momento dell’intervista gli Zu non avevano ancora annunciato il cambio dietro alle pelli nella persona di Tomas Jarmyr).

Sempre come Zu, al momento, siamo al lavoro su vari progetti che sono legati al mondo di “The Left Hand Path”: faremo uscire un disco registrato insieme a David Tibet dei Current 93 alla voce e con Stefano Pilia; oltre a questo c’è in programma un altro album incentrato sull’elettronica e i synth modulari. Per quest’ultimo lavoro abbiamo deciso di cambiare ulteriormente batterista e abbiamo chiamato il norvegese Tomas Jarmyr. Il nucleo della band siamo essenzialmente io e Luca e man mano decidiamo chi coinvolgere negli Zu: fino ad ora c’è stato questo periodo con Gabe ed adesso si apre una nuova fase con Tomas, che è diventata la “terza voce” più adatta ad esprimere ciò che vogliamo dire adesso. Tomas lavora molto sulle frequenze dei piatti conducendo una sua particolare ricerca su questo: con lui ci siamo trovati talmente bene sin dal primo momento che abbiamo deciso di farlo entrare nel gruppo.

“Goodnight, Civilization”, “The Left Hand Path” e “Cortar Todo” sono i tre dischi che denotano e rappresentano gli Zu in questo momento, a mio avviso. Presi insieme potrebbero essere visti come facenti parte di un unico grande disco, mentre considerati singolarmente sarebbero come tre singoli capitoli di una trilogia. Qual’è la correlazione?

Secondo me sono tre punti di vista differenti sulla stessa cosa. Quando abbiamo deciso di ritornare a suonare come Zu decidemmo di fare una cosa breve, che trasmettesse in maniera urgente, immediata e brutale il nostro messaggio, senza fronzoli e quasi senza ricerca estetica: un EP ci è sembrata la cosa più logica da pubblicare. “Goodnight, Civilization” è esplicativo già dal titolo: sentiamo che qualcosa sta per finire, ne siamo immersi, non ne possiamo uscire ma proviamo lo stesso a raccontarlo e a dare un ordine a queste sensazioni che in quel momento ci stavano impossessando. “The Left Hand Path” è l’altra faccia della medaglia rispetto a “Goodnight, Civilization”: è ciò che davvero provi dentro di te. E’ l’incubo che ti sveglia di notte e non riesci a capire perché ti ha fatto così paura. Probabilmente proprio perché è un disco non risolto, è stato così poco apprezzato: in esso c’è la consapevolezza di qualcosa che non si riesce a capire e che disorienta. E alla fine di tutto ciò c’è “Cortar Todo”: è sia il modo in cui porsi di fronte a questa guerra che ci circonda, sia la reazione a essa.

Facendo un passo indietro nel tempo, sarebbe importante tirare in ballo anche “Carboniferous” che, dal mio punto di vista, è uno spartiacque all’interno della vostra carriera. Da ascoltatore mi ha evocato l’immagine di un viaggio nelle viscere della Terra, dove i suoni del disco fanno venire in mente i suoni dei fabbri che lavorano il metallo e la terra, modellando la materia. Da un lato questo disco si pone ad un punto opposto rispetto a “Cortar Todo”: su “Carboniferous” troviamo un elemento della Terra, la montagna, sul vostro ultimo album c’è invece la Terra vista da una prospettiva meno “umana” per così dire, ovvero quella dello spazio. Dall’altro lato, comunque, l’influeza di “Carboniferous” su “Cortar Todo” si fa sentire molto, sia musicalmente ma soprattutto attitudinalmente. Come vedi “Carboniferous” in relazione agli Zu di adesso?

E’ un po’ difficile parlare del disco in sé dopo tanto tempo ma comunque sono d’accordo con te: lo vedo anch’io come spartiacque e come il disco che abbiamo sempre voluto fare ma che non stavamo mai riuscendo ad ottenere. “Carboniferous” è stato la summa dei primi dieci anni della band: tutti gli incontri, le ricerche, i suoni, le improvvisazioni sono stati alla fine unificati in un discorso omogeneo che ci ha permesso di dire con chiarezza: “Questi siamo noi”. Lavorare su “Carboniferous” è stato come addentrarsi in un campo inesplorato, dove dovevamo tirare fuori nuovi suoni e scavare, appunto, come in una montagna per far emergere vari elementi, quasi fossero ossa e fossili di antiche ere geologiche (N.d.a. il Carbonifero è la quinta delle sei ere geologiche in cui è suddiviso il Paleozoico, ed è così denominato per la diffusione di giacimenti di carboni fossili grazie alla grande diffusione delle foreste avvenuta in questo periodo). Forse non è stato un caso il fatto di doversi prendere cinque anni di pausa dopo quel disco: avevamo trovato la formula giusta e sarebbe stato facile far uscire altri album uguali a “Carboniferous”; da un punto di vista del marketing avrebbe funzionato ma non volevamo questo. Cambiare batterista è servito anche per non darci la possibilità di ripetere le stesse sonorità. Una volta che suoni sempre la stessa cosa ti identifichi con essa e diventi quella cosa. In ogni caso, oggi noi siamo ancora legati a “Carboniferous”: le sonorità ricercate per “Cortar Todo” vengono da lì e da quegli stessi processi che ci hanno portato a quel disco nel 2009. E’ ormai una matrice, e inoltre suonando dal vivo quei vecchi pezzi ci siamo accorti che non c’è tanto stacco con quelli nuovi.

Molti hanno cominciato a seguirvi proprio a partire da “Carboniferous”. Questo disco vi ha portato un bel po’ di pubblicità, complice anche il fatto di essere uscito sotto Ipecac, l’etichetta di Mike Patton.

Certo. Sarà che prima di quell’album eravamo impegnati in vari altri progetti per noi importanti ma pur sempre di nicchia. Ma indubbiamente se non ci fossero stati prima tutti questi altri progetti probabilmente “Carboniferous” non sarebbe nato. E’ stato un processo che è andato, e va tutt’ora, di pari passo alla vita dei componenti degli Zu. Non ha niente a che vedere con i soliti tempi dell’industria discografica dove ogni momento è scandito dalla successione album-tour, secondo album-tour più grosso e così via. Il nostro è più un progetto di vita: nasce, cresce e muore con te.

Dopo che siete ritornati sulle scene come Zu, con il cambio di formazione e un bagaglio di esperienze differenti, che cosa è cambiato nei vostri live? In che cosa si differenzia ora il vostro approccio ai concerti rispetto a prima?

E’ diventato tutto molto più frontale e diretto. Mentre prima chi veniva ai nostri concerti aveva l’impressione di osservare tre persone che si stavano divertendo fra di loro nella loro sala prove o cameretta, adesso l’interazione è maggiormente diretta verso il pubblico. Da parte nostra adesso c’è molto più abbandono e molta volontà di esporsi con meno filtri possibili: la musica fluisce non solo sul palco ma anche fuori. Ci siamo spogliati degli aspetti più intellettuali che potevano sorgere nella nostra musica e chi dovesse venire ai nostri concerti aspettandosi di trovarli ancora rimarrebbe deluso. Questo non significa che non possono esserci: chi ricerca questo lo può tranquillamente fare. Secondo me, tutte le musiche più interessanti hanno molti livelli e strati ai quali uno si può rapportare. Uno dei commenti che mi ha stupito di più è stato quello di una persona che ci ha ascoltato a Marsiglia durante il tour dell’anno scorso, dicendo che la nostra musica era molto malinconica. Credo che non lo diresti mai, ma mi ha fatto pensare che la cosa interessante è che ogni tipo di musica può essere fruita in maniera diversa a seconda delle persone. Forse questo è il motivo per cui continuiamo a suonare: è parte di quello che band importanti hanno fatto e che per questa ragione continuo ad apprezzare. Non ce ne frega niente di entrare nella storia o di creare un rapporto subalterno con gli ascoltatori: per noi è molto più importante creare un senso di comunione e di comunità. E magari, dopo ogni concerto, stimolare le persone a cercare una via personale per esprimersi.

 Zu – Cortar Todo (videoclip – regia Giacomo Cesari)

Carlo Cantisani
Carlo Cantisani
Carlo Cantisani si occupa di musica estrema in tutte le sue declinazioni. Doom, avant, sperimentale, stoner, psych. Oltre che per indie-eye scrive per altre realtà di settore e suona il basso. Laureato a Pisa, sua città di residenza, in discipline umanistiche, prosegue gli studi magistrali in campo filosofico e antropologico.

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