All’improvviso Tricarico, lì su un palcoscenico ancora spoglio, in una cornice bianca e nera, con i suoi cappelli scarruffati e l’aria trasognata. Canta le sue canzoni come fossero monologhi sulle pagine di un libro che conosce a memoria e conferisce ai suoi testi una commovente aurea di autenticità. È un momento breve, un’ouverture, che prelude all’inizio dello spettacolo. Entra l’orchestra nell’ombra, quando gli strumenti sono accordati fa capolinea Francesco De Gregori, senza chitarra, senza cappello e con una camicia gialla paglierino. Attacca “Generale” senza dire una parola, è la normalità, ma poi succede qualcosa, ha voglia di raccontarsi, di spiegare, da questo punto in poi è lui a scrivere la recensione di se stesso. Introduce ogni canzone, si sofferma su i passaggi importanti, il pubblico in silenzio, assorto non si perde una parola.
Applaude sommessamente all’attacco di ogni capolavoro, perché quella scelta da De Gregori iersera è una scaletta di classici. Il concerto diventa un’esperienza teatrale immersiva, un momento di ispirazione alimentato da una creatività implacabile. Il suono dell’orchestra amplia i confini della percezione, riempie i vuoti, lascia che lo spettatore sia portato a un isolamento individuale, le parole pronunciate da De Gregori diventano ancora più potenti e intense.
“La leva calcistica del 68” si conclude con il suono dell’armonica a bocca e per “Buffalo Bill” imbraccia la chitarra, come se non potesse evitarlo, un gesto automatico anche se dietro le sue spalle un monumentale ensemble di musicisti lo accompagna. Il maestro d’orchestra sa come condurre il pubblico, sulla destra del palcoscenico si gira e con la sua bacchetta, come fosse un metronomo, scandisce il ritmo con cui battere le mani a tempo. Si divertono tutti.
Nel frattempo Francesco ha introdotto “La valigia dell’attore”, è un momento di schizofrenia, quando passi dal camerino al palco cambia tutto, anche se ci sono solo pochi passi da fare, dice il cantautore, è una storia che appartiene a tutti, un piacevole dramma che viviamo ogni giorno. Poi tocca a “Il guanto”, una canzone ispirata dalle dieci tavole di Max Klinger, è un fiume in piena De Gregori.
Quando domanda come sta andando, la piazza per la prima volta scoppia in un boato, soddisfatto decide di assegnarci la piena sufficienza. Si accende una sigaretta, già senza cappello non può rinunciare a un altro vizio. È serafico. In questo orizzonte color pastello le luci degli smartphone si accendono per “La donna cannone”, un momento irresistibile per non essere immortalato.
“Buananotte Buonanotte fiorellino” sembra la conclusione perfetta, dopo una cover di Elvis Presley, «e qualcosa rimane» è lo stesso De Gregori a saperlo «E’ tutto quel che hai di me. È tutto quel che ho di te» è l’happy ending atteso per una comunità che torna all’originario stato d’armonia.