Grazie ad una versione “portatile” dell’exploding plastic inevitable wharoliano, John Cale accompagna tutti i brani del suo set a Fabrica con una serie di proiezioni che cercano di ripercorrere, attraverso la sintesi elettronica, le intenzioni e la qualità di un viaggio psichico cominciato cinquant’anni fa. Anche il set e sopratutto il contributo degli straordinari Dustin Boyer (chitarra e samples) Deantoni Parks (batteria e samples) e Joey Maramba (basso), è costantemente filtrato, processato, contaminato dai dispositivi elettronici tanto da riproporre in formato ridotto e adattato al suo repertorio le sperimentazioni della “drone orchestra”, con un approccio più frontale e meno immersivo.
Ma è la libertà e la dilatazione a trasformare il concerto di Cale in un evento memorabile.
A sorpresa, il musicista gallese lascia fuori il repertorio dei Velvet Underground ad eccezione di “I’m Waiting for the man“, privilegiando la sua carriera solista per riscriverla completamente, in linea con M:FANS, il suo recente progetto che affianca “Music for a new society” ad un doppio mostruoso e inquietante.
Niente conserva la forma e la struttura originale e brani come “Ship of fools”, “hanky panky nohow”, “dirty ass rock’n’roll”, “coral moon”, si tramuta in una via di mezzo tra una minacciosa drone music e quella espansa di alcuni episodi velvetiani, tanto da piegare tutto il set dalle parti dell’omaggio sottile, laterale e completamente reinventato nei confronti di quelle intuizioni.
Persino la tendenza bluesy di “Dirty ass rock’n’roll“, deprivata dalla sezione fiati che si era portato sul palco intorno al 2010, esalta le interferenze, le asimmetrie e quella vitalissima tendenza improvvisativa che caratterizza lo spirito di Cale, anche nelle composizioni più chiuse nella geometria del pop.
L’esecuzione di “Gun” appesa in coda a “Pablo Picasso“, il brano dei Modern Lovers di Jonathan Richman, prodotto originariamente da Cale, mantiene una connessione apparentemente filologica, ma con la stessa liquidità temporale di tutto il set: il tono sembra più quello dei live robotici e feroci condivisi con Deerfrance nella seconda metà dei settanta, ma ancora una volta è quel residuo velvetiano che era già in un brano come “Gun” negli anni della sua incisione, ad assorbire l’identità del secondo brano, in uno scambio vitale che fonde le due esperienze in una sola.
Asciutto, tagliente e trainato da una continua battaglia tra digitale ed elettrico, il concerto di John Cale, insieme ai set memorabili del 1992, si è rivelato come una delle esperienze più riuscite ed emozionanti della sua carriera live. Nessun bis dopo un’ora e quaranta di concerto e il disappunto iniziale scagliato (letteralmente) contro una spettatrice villana che all’attenzione e al rispetto dovuti ha preferito sostituire la persistenza di un flash puntato verso Cale per ben tre minuti.
Insieme al bellissimo concerto di Cale, lo scenario di Fabrica, l’approccio street di qualità per quanto riguarda il cibo, la fusione tra natura e architettura dell’ambiente oltre all’arena concerti collocata tra verde e la grande vasca della struttura, valgono sicuramente tre ore di autostrada, anche se avremmo preferito forse un impatto più fisico e meno salottiero per quanto riguarda la concezione dello spazio.
La musica di Cale è meditativa, ma anche fisica, ipnotica, ma capace di spezzare gli argini e la compostezza del viaggio psichico. Senza per questo invocare la dimensione “carnaio” di un pit qualsiasi, consentire al pubblico di avvicinarsi a Cale forse avrebbe permesso un dialogo maggiore tra il musicista gallese e chi ama la sua musica.
Difficile stabilire allora quanti tra gli spettatori fossero davvero vicini al suo repertorio e alla sua carriera solista e quando una ragazza, autodefinitasi “collezionista di scalette”, sventolava davanti a tutti quella di Cale appena recuperata, forse non si era accorta che quello vergato sopra era il testo di “Things X“.