Chiudendo gli occhi sembra di ascoltare una sorta di greatest hits definitivo, che gira nel lettore amplificato da decine di coni Marshall. Al vaglio della prova live i Californiani Slayer si dimostrano una lubrificatissima macchina di morte, riproponendo quanto inciso su disco con un’aderenza che ha dell’inumano. Tanto di cappello, specie se si considera che stiamo parlando di personaggi non più giovanissimi (i nostri sfiorano ormai le cinquanta primavere), minati da una vita di eccessi e costretti a confrontarsi con brani – spesso e volentieri – oltre i 220 bpm. Anche questo, come si suol dire, è mestiere. Lo show ha inizio poco dopo le 21:00, come da programma. Nessun gruppo spalla, pochissime chiacchiere. I Losangelini sanno bene quello che il pubblico si aspetta da loro, e si prodigano per soddisfare la folla senza risparmiare un’oncia di brutalità. Se escludiamo qualche tuffo nel passato recente (World Painted Blood, Hate Worldwide, i nuovi inni Disciple e Bloodline), la scaletta è incentrata quasi esclusivamente sui gloriosi anni ’80. Si alternano schegge hardcore (War Ensamble, Spirit in Black, Hallowed Point), tour de force di contorto sadismo (At Dawn They Sleep, Hell Awaits) e persino qualche momento “melodico” sulla falsariga dei Sabbath (Seasons in the Abyss, la raggelante Dead Skin Mask). Araya è una statua di sale, ma irradia nondimeno un irresistibile carisma. Gli bastano poche parole (“I can feel the love”) per avere la platea ai suoi piedi. Anche King – prevedibilmente scuro in volto – rimane pressoché immobile per tutta la durata del set, scuotendo la leggendaria pelata a tempo di riff. Lombardo è stato fatto fuori (argh, per la seconda volta!), ma la presenza del figliol prodigo Paul Bostaph – spina dorsale del gruppo durante i ’90 – conferisce legittimità alla formazione attuale. Spetta al “nuovo arrivato” Gary Holt l’onere di garantire la prestazione più estrosa. Forte di un eccellente pedigree (con gli Exodus ha scritto alcuni imprescindibili passi della bibbia thrash metal Statunitense), il buon Gary presta servizio, da un paio d’anni a questa parte, per far fronte all’assenza di Jeff Hanneman. L’agghiacciante consapevolezza che – a seguito della recente dipartita del membro fondatore – tale sostituzione sia da considerarsi permanente, non impedisce di guardare ad Holt con ammirazione. Il nostro è ormai perfettamente integrato nella cornice dell’interplay slayeriano: non solo tiene egregiamente il passo con i ritmi spaccaossa dei colleghi, ma riesce addirittura a prodursi in quegli assoli stridenti ed atonali – folle amalgama di metal e free jazz – che da sempre costituiscono il marchio di fabbrica di Hanneman e King (e che – a parere del sottoscritto – assicurano ai nostri una posizione d’onore tra Albert Ayler e gli Einstuerzende Neubauten). Tutto va come deve andare, dunque? Beh, non proprio. Cautamente posizionato all’altezza del mixer, mi rendo conto che alle mie spalle non c’è praticamente nessuno. Ovvero, che circa metà dell’Obihall (un locale che, di per sé, garantirebbe una capienza considerevole) è rimasto vuoto. Dato che sto assistendo ad un concerto degli Slayer (a memoria del sottoscritto, ciò dovrebbe costituire un evento di portata epocale), la cosa mi coglie impreparato. L’atteggiamento compassato dei presenti, poi, mi destabilizza del tutto. Che fine hanno fatto i mosh pit selvaggi, gli esaltati che si incidono il nome del gruppo sull’avambraccio, i tapini con mascella fratturata ed occhi pesti? Non pretendevo certo una pioggia di sangue da un cielo lacerato, ma nemmeno mi aspettavo foreste di I-phone 5, tesi a riprendere l’head-banging di Kerry King. L’ultima nota di amarezza me la lascia la mancata menzione al collega scomparso. Quando sembra che stia per calare il sipario, tuttavia, i nostri guadagnano nuovamente il palco. Ora sullo sfondo campeggia il logo della Heineken, opportunamente modificato per comporre il cognome del defunto chitarrista. Ed ecco che finalmente al biondo amante del punk, al buontempone collezionista di memorabilia nazi, ad uno degli autori più dotati della generazione thrash, viene tributato un rispettoso omaggio. I compagni sciorinano, una via l’altra, due delle sue composizioni più celebri: la cadenzata South of Heaven, che sfoggia uno dei riff più malvagi della storia, e la controversa Angel of Death, apice dell’estremismo musicale e lirico del gruppo. Se – come qualcuno ha simpaticamente suggerito – Jeff Hanneman è stato ucciso per intervento divino, perchè autore di musica satanica, mi auguro che adesso si stia godendo la scena dal suo cottage sul lago di fuoco, facendosi quattro risate alla faccia della Westboro Baptist Church.