Nello spazio di Parco Gioeni a Catania, si è svolta la seconda serata del neonato Zanne Festival, quest’anno alla sua prima edizione. L’evento è di quelli clamorosi, giacché il cowboy delle tenebre (un Michael Gira sempre più vicino al personaggio di Mullholland Drive di Lynch) e la sua banda, giungono in terra sicula per la prima volta con il loro portato estremo di nichilismo e rabbia, disperazione ed ascesi, dannazione e morte, depistando anche il tour ufficiale attualmente in atto.
La serata è aperta dal vincitore del contest, premiato dallo stesso Gira, Gioele Valenti aka Herself, che si produce in una manciata di pezzi per sola chitarra acustica e minimali basi elettroniche. Seppur funestato da qualche problema tecnico dal banco, che penalizza un po’ il primo brano e che mal si addirebbe ad una rassegna di tali dimensioni, il cantautore regala momenti di altissimo artigianato pop con il suo peculiare stile a doppio binario emotivo dolce/apocalittico, che non può che raccogliere consensi tra gli astanti (pubblico numeroso ma meno di quanto ci si potrebbe attendere).
Poi è la volta del gran cerimoniere Gira e dei suoi cigni. La lenta, funerea, apertura di To Be Kind introduce ad un concerto che supera ogni nozione d’intrattenimento per farsi rituale sciamanico in forma di ottundente, minaccioso, devastante, muro sonoro. Un monolite industriale tanto intimidatorio quanto avvolgente; che si abbatte sulle teste dei presenti con una potenza offensiva unica, che per contrasto, però, ha in sé l’anima dell’estasi paramistica, che verrà raggiunta attraverso il caos organizzato di brani che si direbbe impossibile distinguere l’uno dall’altro. Brani che si susseguono quasi senza soluzione di continuità, retti da accordi unici ripetuti come se ognuno di essi fosse principio e fine d’ogni cosa; il nascere di una quasar e la fine dell’universo. In mezzo si riconoscono le sincopi di Coward, dallo storico Cop, tirate oltre la soglia del minutaggio originale, unica concessione al passato.
Il rito prenderà forma col passare dei minuti, conducendo ad una paradossale astrazione narcolettica; una trance barkeriana indotta dall’esperienza col dolore più profondo (i timpani sanguinano; il ventre è pressato dai bassi; il male interiore di ognuno dei presenti, primo fra tutti il vostro stesso cronista, esposto brutalmente ai loro medesimi occhi in forma di esorcismo). La band è un corpo unico che si muove come una burrasca; come avvolta da vapori ancestrali. Una massa organica con un cuore propulsivo che è lo sciamano Gira che guida ed impone ogni direttiva. Lui è il centro del palco, lui è il centro del suo universo. Gli Swans sono una sua emanazione; sono le sue braccia allungate a croce sul palco, agitate come le ali del condor mistico a cui affidare la visione trascendente dell’officiante; sono le sillabi di ogni sua parola. Il ringhio degli Swans (dalla bocca di Greed al lupo di The Seer) diventa un ribollire lavico, che spazza via ogni cosa al suo passaggio ed induce alla stasi meditativa sul crinale di quell’abisso che guarda a Gira da quasi quarant’anni.
Chi aspettava di assaporare le mille, oscure, cromie che il suono Swans ha dipanato attraverso gli album in studio, resterà deluso. Il nuovo corso della band parla un linguaggio, sì riassuntivo in seno alla storia personale del progetto, ma anche consapevolmente terminale: il suono della fine del mondo, dell’entropia, del nulla della devastazione. Una cerimonia perfettamente imperfetta: formalmente impeccabile; prodotta da musicisti che non si risparmiano sotto alcun punto di vista; una macchina rodata, tenuta su da un’empatia ed un legame umano che molto difficilmente è possibile riscontrare altrove. L’interminabile The Seer, dall’ultimo omonimo album, chiude un’esperienza, comunque la si voglia vedere, unica, importante, capitale.
E mentre gli artisti si offrono al proprio pubblico, il silenzio lasciato dalle ultime note, stordisce, confonde, disorienta. Il rito è finito ma la catarsi non è raggiunta; anzi il male s’è fatto ancora più profondo, mentre una carica statica si disperde tra gli alberi del parco come il tremore dopo un’elettroshock. L’attimo seguente ad una scossa tellurica.