Per i cultori della scena musicale tedesca, legata grossomodo all’area dei To Rococo Rot (Tarwater, Whitetree, Dakota Days, B.I.L.L, ecc.), Barbara Morgenstern non ha bisogno di alcuna presentazione. Attiva ormai da oltre quindici anni, l’artista si è ritagliata progressivamente uno spazio di primo piano, in virtù di uno spirito avventuroso, curioso, sempre aperto al desiderio di espandere il senso della propria musica in tutte le direzioni possibili, toccando ogni territorio del suono elettronico: dai glitches degli esordi, passando dall’impro dei September Collective, alle collaborazioni proprio con Robert Lippock e Maximilian Hecker, giungendo ad una propria personale forma di synth pop che la donna ha sviluppato di album in album sino ad oggi, raccogliendo consensi e piaceri professionali come il prestigioso duetto con Robert Wyatt (Camouflage da BM).
Dell’ampia discografia Sweet Silence è probabilmente il suo disco di più semplice ascolto, forse il più pop in senso lato. Di certo è il primo in cui la nostra fa uso del solo idioma inglese, tralasciando per una volta la madrelingua. Ed è lavoro di levità unica, morbido ed elegantissimo. Un tappeto percussivo elettronico che non cede un secondo, avvolto di synth dagli umori vintage, in una sintesi ‘80/’90/’00 di rara efficacia e profondità.
Su tutto poggiano le sue tonalità vocali da Joni Mitchell futuribile che, di volta in volta vengono dirette sui territori d’una Björk neo-minimalista (la titletrack) o sulle armonie Wyatt di Night Time Falls e The Minimum Says che per il resto sono puro To Rococo Rot sound.
A tratti, nella riformulazione delle algide armonie di ascendenza soul-jazz (essendo lei essenzialmente una pianista), affiora più di una similitudine con Agf; per esempio in Kookoo, sorretta da un sample ciclico che rimanda proprio a certe cose di Antye Greie-Fuchs con Vladislav Delay.
L’andamento da techno-dub prosciugata di Jump into the Life-pool e gli arpeggi euro di Need to Hang around si offrono come i brani più accessibili del lotto. Mentre Status Symbol gioca con gli stereotipi del club, aprendosi su un intreccio di glitches e voce che ad un terzo del brano cede interamente ad un ritmo tanto pulsante quanto leggero ed etereo. Così come la conclusiva Love Is In the Air, But We Don’t Care, che introdotta da un tappeto sognante di synth sembra alludere a dei Gus Gus dai volumi tagliati ed in certo qual modo anche la strumentale Hip Hop Mice, che fa da trait d’union tra il collettivo islandese (circa Attention) e la scuola mitteleuropea.
Spring Time e una tarantella al silicio e Highway è una splendida elegia wyattiana, che finisce per richiamarsi ai Sea & Cake, presentata come brano orchestrale ma l’orchestra non sembra discostarsi poi molto dal suono delle tastiere.
Sweet Silence è un disco fresco, brillante, adamantino. Non dice nulla che non sia già stato detto migliaia di volte ma lo fa con una purezza che rende ogni nota unica, ogni armonia fondamentale. E poi gode di una scrittura eccellente, forte della sua assoluta semplicità.
Nel migliore dei mondi possibili sarebbe un successo planetario.