Ricordo un’ estate del ’94. Avevo 13 anni, e come ogni domenica mattina mia mamma mi aveva ricattato e portato (con mio sommo malgrado) verso le 8 sulla spiaggia di una Baratti non ancora colonizzata da stabilimenti balneari, baracchine tiki style e surfisti biondi livornesi. Il sole aveva invaso il golfo, assieme agli altri bambini e alle loro tragicomiche famiglie stracolme di ombrelloni, borsefrigo e altre inutilità. Quello che aveva però causato una insolita sorpresa nella popolazione di villeggianti accorsi in riva al mare, come lucertole al sentore del primo caldo mattutino, mista ad un insano senso di smarrimento, era l’ aver trovato sulla battigia corpi non morti che oscillavano a tempo dalla sera prima, di un’ età identificabile tra i diciotto e i venticinque anni, sesso misto non troppo nascosto, in stato di catalessi irreversibile, e l’ aver sentito riecheggiare dagli angoli più impervi del litorale un suono che poi, i miei orecchi di sedicenne, qualche anno dopo, avrebbero riconosciuto essere Blue Room degli Orb, maestri incontrastati della trance anni 90. Quella specie di Dawn of the Dead non era altro che l’ indomani del primo The West – Riserva Indiana, il rave che aveva cambiato per sempre una generazione ed il suo consumo di droga. Chi legge ovviamente si starà sempre più chiedendo cosa può avere a che fare questo con un disco uscito qualche settimana fa per mano di due dj tedeschi che ben poco hanno a che fare con i trascorsi personali del sottoscritto. Ebbene, forse nulla, ma gli ascolti reiterati di questo More! hanno tirato di nuovo fuori quei ricordi. Le immagini di quelle facce, ballanti alla luce del sole nelle cui teste evidentemente delirate rimbombavano brandelli di rumori, suoni, voci, sussurri della notte appena trascorsa, e un andante quattro quarti li teneva per miracolo in piedi a ballare. Ed ecco che loro pure sembravo dire “mooore”, ancora, ancora. Ho provato a traslare tutto questo ad oggi, alle prime luci dell’ alba di Ibiza, Mikonos, mal che vada Rimini o la Versilia. Quando l’ alba non è un nuovo inizio, ma la fine di una notte passata troppo presto, senza che i gesti e le azioni compiuti qualche ora prima siano ancora messi bene a fuoco e tutto diventi uno psichedelico trip attraverso la musica e sé stessi. More! allora rispolvera in questo l’ illustre predecessore omonimo dei Pink Floyd, che accompagnava la controversa pellicola di Barbet Schroeder, e quel suo chiedere “di più, ancora di più”. Come allora riscoprire la droga, il sesso e la musica psicotropica oltre l’ umano pregiudizio. Sembra suggerire proprio questo la sofisticata dream machine messa in piedi dai Booka Shade (attivi dal 2004, quarto lavoro in studio per loro), che fa combaciare l’ eleganza di sonorità mai invadenti (forse un po’ obsolete, va detto) e le più tortuose soluzioni lisergiche, affidandosi a voci off, esasperati riverberi, scricchiolii sinistri, suoni di bicchieri rotti. Il gioco è un po’ vecchio, forse, ma diverte ancora. L’ atmosfera si crea, fittizia, surreale. Nulla di radicale, nulla di travolgente, ma si balla ancora. E ancora.