Che tale revanscismo deigli eighties sarebbe comunque divenuto un tormentone lo avevamo già intuito quando, anni orsono, folk ed indie avevano flirtato con l’elettronica creando ad arte qualcosa di cui solo i poppettari più incalliti avrebbero potuto dolersene (sostituire le tastiere con le chitarre, giammai!) A dire il vero, anche la facilità con cui certe architetture pop s’invaghissero dell’epos wave era facilmente prevedibile, soprattutto se a presentarcene i possibili risvolti se ne erano incaricate alcune faccette per bene. Tuttavia, credevo fosse assolutamente pleonastica una rivisitazione atemporale del “già fatto” quasi quanto le meduse in un mare pulito, eppure Yes and Dance dei Silver Columns è riuscito a stregarmi. E mi è facile capirne il perché. Problematico infatti non cedere al tipico fascino amarcord degli anni ‘80, soprattutto se li si sono vissuti direttamente. Un po’ come quei revivals cantati a squarciagola mentre si rincorre il trenino umano. Così, sul filotto abbastanza azzeccato di Hercules and Love Affair e Hot Chip si muovono anche Adem Ilhan e Johnny Linch (già con Fridge e The Pitcish Trail). “Operazione successo” confezionata ad arte (è proprio il caso di dirlo) sulle basi solide e ben navigate di un incedere serrato, tipico delle belle cavalcate dance dei New Order (Cavalier, Always on) e su un weird che osa uscire la testa dalla tana. Questo duo riesce così ad invaghirmi sia che ricalchi pedissequamente suoni e strutture già sentite sia che interpreti, à la sua maniera, trip barbiturici come It is still you o trame deliziose come Heart murmure. Columns e Way out paiono essere amore vero verso Vampire Weekend e la Roland 808, mentre Warm welcome e la title track un Caribou che cita gli Stereolab. Beh, chiedetemi se Brow Beaten sia praticamente una cover di Smalltown Boy (compresi i falsetti del femminino Sommerville) e vi risponderò: “si…e balla”. Empatia e tanta, tanta voglia di estate.