Qualsiasi cosa si possa dire sulla recente “riduzione” delle potenzialità di Kelis dentro un guscio “iperprodotto”, rimane il sospetto che il diaframma di una confezione senza possibilità di entrata (e di uscita) non sia semplicemente il risultato di una solida armatura sonora esposta in evidenza, quanto la cronica mancanza di un’idea di scrittura, ovvero ciò che manca all’ultimo lavoro dei Trans Am; oltre le volgarità assortite che per altre vie non ci avevano affatto spaventati, manifestandosi come un nuovo punto di forza per il trio del Maryland, emerge in primo piano il tentativo di rendere ancora più coeso e sintetico il loro suono, spingendo il nuovo corso verso una tipizzazione ancora più “pop”; un pop fatto però di brandelli, di oggetti sonori, di cose. Al di là delle intenzioni, è un’involuzione irritante che rende percepibile il collage, l’abbinamento schizoide, il campionario delle trovatine ad effetto; Thing mette in atto una sorta di devitalizzazione dei suoni per renderli sempre più simili a cose, elementi prelevati da questa o quella cultura; se l’operazione non si rivelasse tale e fosse animata da una certa vita, potrebbe avere la forza di mettere insieme gli arti di un immaginario popolare sul lettino di un chirurgo così da ricostruire un terrificante golem sonoro; al contrario, proiettati come sono verso le pieghe di un futuro anteriore, i Trans Am rimasticano una dinamica che è sempre stata tutto sommato la loro forza e la loro debolezza. Se a questo aggiungiamo la megalomania di dover metter dentro il più possibile, una lavorazione lunghissima, estenuante e inutile, tocca rimpiangere onesti artigiani come Vangelis, paladini di un mondo sonoro finito da un pezzo, ma per lo meno consapevoli della differenza che passa(va) tra concetto e suono.