Nei ’90 ci sfioriamo appena. Il suo è uno di quei nomi che non puoi non conoscere. Se non altro perché all’epoca i Massive Attack imperversano, e una volta su tre lui è della partita. Karmakoma, Jamaica’ aroma. Ma i suoi lavori da solista sono un’altra storia. Roba troppo oscura, troppo underground per un adolescente dai gusti popolari come il sottoscritto. Ci incontriamo di nuovo una decina d’anni più tardi. Tricky live @ Festival della Creatività, Fortezza da Basso, Firenze. Sul palco lui è una figura piccolissima, anche perché ci separa un mare di folla. Mi aspetto un set elettronico, e invece me lo trovo alla testa di un ensemble hard rock, basso/chitarra/batteria. A petto nudo. Che fa headbanging. Sul momento la cosa mi lascia perplesso, ma in un certo senso lo ridimensiona, lo rende più accessibile.
Come dire, anche a me piace pestare quando posso, ma vuoi mettere il risparmio che ti garantisce l’home recording? Così mi figuro che il tanto celebrato minimalismo del signor Adrian Thaws debba essere attribuito ad una certa incapacità di fondo. Incapacità tecnica, intendiamoci, perché a livello di scelte sonore il nostro non sbaglia un colpo. E, quel che è meglio, riesce a fare dei propri limiti un punto di forza. Prendi l’ultimo singolo Does It. Un beat hip hop ultra rallentato e due note di basso (basso vero, con le corde) che sembrano buttate lì alla cazzo. Il resto sono voci che vanno e vengono, atmosfere suggerite più che architetture musicali realmente strutturate. Pochi elementi in croce, insomma, ma Cristosanto® sono proprio quelli giusti. Perché se ti scendono i brividi lungo la spina dorsale vuol dire che la polpa non manca. La politica delle due note (letteralmente, due) la ritrovi anche in Somebody’s Sins e Hey Love, che sfruttano pad di sintetizzatore in luogo del basso elettrico, ma vanno a ricreare lo stesso clima di claustrofobia. Altre divagazioni sul tema sono Valentine, Tribal Drums, I’m Ready, Passion of the Christ, cui si aggiunge un elemento etno-percussivo à la Creatures che mischia ulteriormente le carte in tavola.
I numeri più morbidi e soul (Nothing’s Changed, If Only I Knew, Nothing Matters) sono quelli che rimandano maggiormente al suono anni ’90 e al collettivo di Bristol. Roba buona, ma tutto sommato trascurabile a fronte del resto. Specie perché in tali occasioni la bella voce di Francesca Belmonte (lo Yang che bilancia oggi il riottoso Yin di Thaws) si trova fin troppo a suo agio, perdendo quella particolarità che risplende appieno in contesti più tenebrosi. E poi ci sono i numeri che ti prendono alla gola, perché non ti aspetteresti mai exploit del genere da uno come lui. Is That Your Life, in odor di pop anni ’80, comincia groovey e funkeggiante ma si tinge di nero non appena il nostro si impossessa del microfono. We Don’t Die riesce a fare persino meglio, tratteggiando un pattern a metà strada tra Carpenter (N.D.R. qui si parla di Bombing Bastards, la prima sbornia carpenteriana di Tricky) e i brani ambient di Felix Da Housecat. Un motivo oscuro che, nondimeno, traghetta un messaggio di speranza. Un anelito che parte dal lerciume e porta verso l’infinito.