A prima vista Andrea Venezia pare che tenga le mani giunte come in segno di preghiera, con un abito talare color porpora. E’ invece un’armonica quella che tiene in mano, uno degli strumenti preferiti dal diavolo, ed è una camicia quella che indossa, al collo legato un cappio che gli umani solitamente chiamano cravatta e fa distinguere i gentleman in quel di New Orleans. Nell’ambiguità il project Venezia ci sguazza, tra stop e ripartenze brusche, armoniche e pulsanti basi elettroniche, legami profondi con il genere madre del rock as we know it e gli stravolgimenti operati da punk e elettronica negli anni ’80. Per questo che i paragoni si sprecano, collegati ad entrambi i sensi: Birthday Party e i seguenti Bad Seeds, Suicide per le pulsazioni elettroniche (ma con un missaggio degli anni ’10, che rende tutto più potente e vibrante), le sciamanerie rese pop dai Doors, ma pure Capossela in preda al blues che non ha mai avuto, l’isteria vocale riportata in auge da IOSONOUNCANE (in pezzi come La Culla), Zucchero catarroso e in vena di scherzi con una tastiera tenebrosa di Dolce è la Sera. La forza delle cavalcate blues rimane intatta, si ascolti la opening track come pure Oramai, roba che sotto ad un palco si ballerebbe come in preda a disturbi ossessivi-compulsivi, e nei pezzi più cauti (non calmi) si rimane in ascolto, docili come agnellini, davanti alle parole del locale pastore di anime disturbate dal rock’n’roll. Un esperimento degno di nota.