venerdì, Dicembre 20, 2024

Dakota Suite – The Hearts of empty (karaoke Kalk, 2011)

Quello che colpisce nella musica di Chris Hooson è la capacità di avvicinare il suono al concetto di movimento, quasi fosse un sinesteta puro teso a dotare i suoni di caratteristiche percettive; si potrebbe liquidare il concetto parlando di musica cinematica, ma è un termine così abusato che troppo spesso non rende giustizia della complessità di alcuni autori  limitando la loro musica entro confini legati ad un immaginario già enciclopedico, questione che tra l’altro riguarda (negativamente) buona parte della musica strumentale prodotta in Italia negli ultimi cinque anni.

Dakota Suite almeno sin da The Way i am sick, ha privilegiato una forma dronica del suono; muovendosi da un passato maggiormente invischiato nei cascami slowcore se ne libera presto distillando da quell’esperienza tutti gli elementi sensoriali legati alla dilatazione del tempo.

A questo proposio basta ascoltare raccolte come Song from a Barbed Wire Fence e Signal Hill, sofferte versioni dell’universo Codeine che lasceranno presto il posto ad una ricerca sonora ben diversa spinta fino al più recente e doloroso The End Of Trying caratterizzato da quell’impasto inconfondibile tra piano, archi e il residuo di un folk rurale, innestato su un’impalcatura emotiva dalla consistenza liquida.

In questi lavori è come se il “landscape gardening” di Eno in Apollo Soundtracks venisse sviluppato a partire dalla decontestualizzazione dell’elemento popolare in un territorio che perde progressivamente contatto con le radici per privilegiare un sistema timbrico, sinestetico appunto, a tratti acusmatico, che trasforma la retorica folk in un’astrazione mentale. In questo senso, The Hearts of empty ci sembra il lavoro più completo di Hooson, quello più magico e ispirato e allo stesso tempo sviluppato con i mezzi di un’estetica concisa, fortemente comunicativa, un dato non da poco per chi lavora con il tempo e lo spazio attraverso i suoni.

Lo stesso Hooson definisce la sua nuova raccolta come una risposta fumosa e Jazz a The End of Trying; assetto che ovviamente non è “standard” e che si avvicina al Jazz minimale di Angelo Badalamenti, in quel mix tra malinconia e inquietudine che mette insieme pattern ritmici essenziali con i paesaggi infiniti disegnati dai drones.

Un po’ come nel cinema di Lav Diaz, il tempo di questo nuovo Dakota Suite è indagato attraverso la mutevolezza del piano sequenza, rivelatore di una connessione intima tra la terra e l’assenza di gravità; proprio in questo senso la ricerca sofferta di Hooson è stata troppo spesso confusa con una reverie di natura romantica quando al contrario, le forme della malinconia sul quale lavora collocano le immagini sonore ad una distanza irraggiungibile, troppo lontane per le forme autocompiaciute del ricordo; è come se la bellezza maestosa del paesaggio comprendesse anche la natura del disastro, l’immagine rovesciata della terra, una comunicazione costante con l’inferno.

The Hearts of empty si sviluppa come una suite per immagini, legando la progressione delle tracce ad un campione limitato di elementi ritmici che si trasformano in nuclei tematici ricorrenti grazie agli interventi pianistici; ancora una volta si pensa a Badalamenti per lo meno come al riferimento più vicino per descrivere un dub della psiche, ma anche un modo di concepire la narrazione strumentale per tasselli mnemonici, ricorrenze sonore che reagiscono con la nostra percezione, invitandoci alla ricombinazione di un tracciato assolutamente personale.

La stessa title track ha per esempio la capacità di aderire all’anima e al pensiero, pur conservando quelle caratteristiche che non la rendono certo un episodio cantabile; per contrasto la spigolosità ossessiva di how to stop a moving body si presenta come un continuo oscillare tra basso e piano in un intarsio che ricorda la scabra progressione delle architetture modali e le risonanze della Koto music; The Ladder è un prolungamento dell’intarsio pianistico precedente, tramutato in un drone modificato dalle tastiere, prossimo ai paesaggi di certa elettronica tedesca.

E’ un deserto che si popola di spettri nella splendida eskimo nebula e che ritorna alla terra con underpowered e vermont canyon road, sostenute da un drumming che recupera l’intima essenza Jazz degli Slint o degli ultimi Talk Talk. L’ambientazione amniotica di The Black Pyramid avvolge un “solo piano” dalla consistenza vaudeville in questo continuo oscillare tra assenza e presenza che punta sempre più alla rappresentazione del vuoto come contrasto tra narrazione e astrazione sonora, un persistere del racconto melodico e della materia concreta del ritmo all’assorbimento nel suono “puro”; The Basin, l’ultima delle 14 tracce di The Hearts of empty è il dramma apicale di questa lotta; sostenuta dall’incedere spiraliforme del basso è una dissolvenza che non chiude mai se non per ragioni “economiche”.

Una splendida apologia del vuoto.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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