venerdì, Novembre 22, 2024

Damo Suzuki’s Network – Sette modi per salvare Roma (Goodfellas, 2011)

Bisognerebbe davvero chiedere a Damo Suzuki quale sia il segreto dell’eterna giovinezza artistica: lui probabilmente risponderebbe, forte di una saggezza squisitamente orientale, che essa risiede nella libertà assoluta con cui si gioca insieme ad un gruppo di amici dei quali ci si può fidare ad occhi chiusi. A rischio di banalizzazioni, è però davvero questo l’elementare concetto che emerge dalla performance che il cantante nipponico ha allestito in occasione delle nuove date italiane del suo progetto itinerante (attivo da qualche anno), per il quale ha chiamato via via a raccolta membri della crème della scena indipendente nazionale. In altre occasioni, con lui dividevano il palco membri dei Julie’s Haircut, Mariposa, Giardini di Mirò, Offlaga Disco Pax, insieme a Thomas Wydler dei Bad Seeds e Beate Bartel degli Einstürzende Neubauten.

Per il concerto capitolino al Circolo degli Artisti del 20 gennaio scorso, di cui questa pubblicazione costituisce la registrazione dal vivo, la line up sciorinava nomi da tuffo al cuore: oltre a Suzuki alla voce, la formazione vedeva Manuel Agnelli al piano e al synth, Xabier Iriondo alla chitarra e al mahai metak, Enrico Gabrielli ai fiati e il jazzista Cristiano Calcagnile alla batteria (fra le sue collaborazioni, Gaslini, Braxton e Bollani, solo per citarne alcuni).

Nella presentazione del progetto Suzuki vedeva quest’esperimento come una sorta di partita di calcio in cui il risultato è apertissimo, nella quale il gioco di squadra e la coesione dell’organico sono fondamentali nel conferire razionalità ad un progetto che ha la free form come unico cardine imprescindibile.

Certo è che con una squadra così non si perde. Scevri da qualsiasi tentazione di protagonismo, i musicisti trovano un eccezionale amalgama riuscendo a far passare per già scritto ciò che (almeno in riferimento alle parti singole) probabilmente è del tutto improvvisato.

Schierandosi dietro alla voce del loro carismatico frontman, che bisbiglia, urla e ruggisce in una sorta di ibrido grammelot che coniuga inglese e giapponese, danno sfogo ad libere “improvvisazioni organizzate” nelle quali toccano territori che sembrano appartenere a quarant’anni fa quali l’avanguardia, il free jazz e (c’è da chiederselo?) le ipnotiche divagazioni kraut in cui i Can, nel periodo d’oro dei quali (1970-1973) Suzuki era l’eminenza grigia, erano maestri.

In tutto ciò, l’approccio è comunque marcatamente antijazzistico in senso classico, poiché spesso e volentieri a fornire l’inciso caratterizzante del pezzo è una coppia di strumenti, ai quali gli altri si aggiungono senza un ordine prestabilito.

Lo spoken word quasi hip hop di Alphabet Zoo, guidato da voce e batteria (la palma di primus inter pares va allo straordinario Calcagnile, ma i musicisti sono tutti in forma smagliante), ne è già un esempio: le tessiture pianistiche di Agnelli e i clang metallofoni di Iriondo (l’intesa pluriennale fra i due emerge ad ogni minuto), ottenuti con il mahai metak, sorta di chitarra verticale di sua invenzione, lasciano poi il posto ai voli rapsodici del flauto di Gabrielli (che, nei mille progetti che porta avanti, davvero non ne sbaglia uno e che qui lavora in punta di fioretto), ripresi dalle sfuriate di rullante, a sua volta incalzate da un ribattuto pianistico e dalla chiusa rumoristica della chitarra di Iriondo, impressionante per la varietà mai gratuita di timbri ed effetti. Il tutto sfocia poi in un finale che dal punto di vista ritmico si rimette in carreggiata come se nulla fosse accaduto.

Un’altra versione dello stesso (un sincero plauso va all’ideatore degli strampalati titoli) si gioca su un solo accordo ed esplora tutti i possibili territori della scala misolidia, che nel kraut era quasi una legge non scritta. Percussioni di oggetti da cantina (definizione del batterista stesso) e di corde che sembrano quasi un’arpa orientale si accompagnano alle divagazioni del flauto e al cantato (quasi…) melodico di Suzuki, prima di deflagrare in un surreale acoustic noise, preparando il terreno alle rilassate distese di organo, clarinetto basso, lastre metalliche e voce recitata di Siamo interessanti come pensiamo di essere?, che chiude con cadenze quasi trip hop. L’episodio successivo, certamente quello più oscuro, si regge su un pianoforte noir blues (Agnelli, fra tutti i musicisti, è colui che maggiormente fa suo un approccio “tonale” alla materia armonica) e su dolenti accenni melodici, mentre L’azienda che fa tutto riecheggia i massacri sonori degli Area di Area 5 o dei primi Zu, con Suzuki scatenato in una convulsa furia animalesca e Gabrielli genialmente surreale nel richiamare sonorità popolaresche. Dopo tanto materiale da lasciare a bocca aperta e pancia piena, c’è tempo anche per il bis (chissà chi sarà il “mr b.”), una specie di valzer spagnoleggiante impazzito sfociante in una chiusura dai toni quasi da punk acustico al quale il pubblico risponde entusiasta.

Ovvio che un progetto del genere, per essere goduto appieno, debba essere visto oltre che ascoltato, forte com’è del carisma del suo leader, alla testa di un gruppo che sembra suoni insieme da una vita, tanto precisi e ben congegnati sono, fra loro, stacchi e chiusure in simultanea. Né jazz né Zappa, dunque, bensì un puzzle estremamente coerente e definito nel suo complesso, che dimostra come alfieri della scena indipendente italiana possano viaggiare comodamente a braccetto con un pezzo di storia della musica rock e non solo, in un percorso in cui il divertissement reciprocamente contagioso fra i musicisti non è mai circoscritto e autoreferenziale, ma si tramuta in una autentica gioia per le orecchie.

Damo Suzuki in rete

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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