Ancora note su Death Proof. Rossellini Tarantino Bava, o forse la mutazione della soggettiva, in Rossellini e Bava. Nessuna intenzione teoricobelligerante, ma non si può affrontare l’ultima fatica (anche in senso produttivo) di Quentin Tarantino senza pensare ad una voragine ancora più estrema di quella che si forma durante le visioni di Kill Bill; al contrario, lo si digerisce bene se ci si arrende ad una visione anestetizzante della solita superficie ludicocinefila; ci si può anche commuovere (c’è chi ne sarebbe capace) sul filo sonoro di Franco Micalizzi ma il movimento sta altrove e ha una forza che si avvicina davvero alla commozione quando quel montaggio di scarti, code, raccordi femminili risucchia il film dentro i sorprendenti titoli di coda. E’ quella biforcazione che in pulp fiction esaltava gli entomologhi del postmoderno, appagati dal giochino ad incastri, e da una prospettiva rovesciata permetteva di perdersi nei cluster, nei dis-accordi, o dis-astri, nel colore e nella luce, veri magneti di Pulp Fiction. Death proof ha la stessa potenza astratta, e ancora una volta, cluster, anche in senso strettamente musicale, mi sembra possa essere una delle suggestioni possibili. Per piccoli scarti e slittamenti, alla combinazione attualmente distribuita continuo a preferire la versione inclusa nel double-feature spartito con Rodriguez, quella di 85 minuti; dove il senso di perdita, di disorientamento, di deviazione, di viaggio nel tempo e nello spazio, è davvero terrifico e non rischia neanche per un istante di essere decodificato dal fantasma della perfezione, o peggio ancora dal gioco vintage.