Che Dirty Beaches (n.d.r. leggi l’intervista su indie-eye.it) optasse per un album doppio era cosa assai prevedibile. Basta una rapida occhiata al suo Bandcamp per scoprire una miriade di singoli ed EP ripartiti su più etichette discografiche, pronte ad ospitare un assaggio del suo sound atipico e inconfondibile. Dopo il successo di Badlands (2010), che lo consacrò outsider e affascinò stampa e pubblico con le sue angoscianti, imprendibili atmosfere lynchiane, Alex Alex Zhang Hungtai ha continuato ad esplorare la sua formula di base: un crooning isterico, soffocato da lisergiche drum machine, layer di distorsioni e loop urticanti. Il tutto alternato a qualche sporadica, opaca balata. Lo stesso senso di spaesamento e confusionaria emotività permane in Drifters/Love Is The Devil, concepito in viaggio e registrato a Montreal il primo, completamente realizzato a Berlino il secondo. 15 brani per 75 minuti: l’affare si complica non poco e Dirty Beaches mostra un lato decisamente più imprevedibile, in tutto e per tutto un magistrale passo in avanti. Sempre nel buio, s’intende. Drifters prosegue l’infatuazione per la vita notturna on the road e mantiene alcune di quelle sghembe strutture-canzone di Badlands, con le tipiche, indomite raffiche elettriche e i consueti sussulti (Casino Lisboa, Night Walk, la morrisoniana I Dream a Nation). L’eco dei Suicide continua a farsi sentire. Ma sono gli sperimentalismi, che finora Alex aveva destinato alle uscite secondarie (dalle scorribande drone di NP alle infatuazioni elettroniche di Night City), la vera scoperta. Le consuete strutture ritmiche prolungate, involutive sono spesso ora serve della paranoia: in Au Revoir Mon Visage Alex schiamazza e rantola in francese su un letto di percussioni identiche a se stesse, Elli riporta i vocals e, per una volta tanto, le liriche in piena luce (“Elli, Elli, what do you see?/What do you see about me?”) e si avvicina a un formato canzone morbido e ossessivo assieme, sulla scia di un Daughn Gibson. Ma sono Belgrade e Mirage Hall i due standout del primo capitolo. La prima maneggia dei synth perforanti su una fosca linea di basso, la seconda riesce nel miracolo di mescolare angoscia e godimento per una durata di quasi dieci minuti: sporca, sferragliante, un trip diabolico in cui Alex professa (in spagnolo) di perdere il controllo. Love Is The Devil baratta l’adrenalina per un mood pensivo e malinconico, in cui per la prima volta Alex sperimenta anche con pianoforte ed archi. Questi ultimi a completo servizio della mestizia della title track, che uscì come anticipazione del disco spiazzando gli ammiratori. I brani suonano spesso come abbozzi, spartane colonne sonore votate a trattenere una singola sensazione, in linea con il concept vagabondo e impressionistico dell’intero progetto. Così gli inquietanti rintocchi di This Is Not My City o lo snervante accavallarsi di synth di Woman. Alone at The Danube River, d’altro canto, intesse sette minuti di assolo all’elettrica, ricreando un idilliaco senso di torpore (quasi nello stile di Tara Jane O’Neil). In Like the Ocean We Part alla chitarra sempre solitaria si aggiunge un’interpretazione intensa e commuovente, interrotta da un breve silenzio e l’arrivo di un treno, altra madeleine tipica di Dirty Beaches. Ci troviamo di fronte un’opera tutt’altro che omogenea, non c’è che dire. In un disco fatto di memorie, molto sfuma, molto si accavalla, ma è proprio questo senso di spaesamento a rendere Dirty Beaches unico e geniale, tanto nei momenti di squilibrio quanto nella ritrovata vena “sentimentale”. Che l’evoluzione continui.