Per Dustin O’halloran la scrittura musicale nasce da una condizione particolare della visione, ce lo raccontava chiaramente in questa lunga intervista realizzata durante la promozione di Push The heart, l’ultima uscita a nome Devics. E non tanto per il suo avvicinarsi al cinema in termini produttivi (Sofia Coppola, Christian Duguay, Eric Nicholas per nominarne alcuni) quanto per l’attenzione agli oggetti, allo spazio, ai minimi terremoti del cuore, a quel materiale che per un pittore impressionista si trasforma in osservazione sinestetica della realtà; non è una considerazione cosi lontana dalla sua musica, fatta di memoria e ricerca timbrica, animata dal recupero anche concreto di strumenti del passato, divelti con forza creativa dal loro quadro storico di riferimento e lanciati verso un presente intimo e ricco di novità; la musica, come il cinema, esca per qualcos’altro, per rubare un aforisma tra i più potenti di quelli scritti da Bresson nel suo taccuino di appunti. Era l’autoharp di Push The Heart oppure “The Object”, la strana invenzione di Pall Jenkins tra futuro e arcaicità, e ancora il Sabel restaurato da O’Halloran stesso per costruire lo spazio sonoro di Piano Solos; elementi che in Lumiere ritornano cercando il miracolo della luce nella sospensione del suono in uno spazio astratto, mettendo in un certo senso da parte la centralità del piano a favore di una tessitura orchestrale ricchissima e assolutamente nuova nella musica del compositore di Los Angeles, che per il suo ultimo lavoro si è servito del violino di Peter Broderick (il suo how they are è recensito su IE REC da questa parte) della chitarra infinita di Adam Wiltzie e di un insieme di stumenti come quelli del collettivo ACME, già con Owen Pallet, Matmos, Max Richter. Composto in tre anni, tra New York, la campagna Emiliana e la nuova residenza Berlinese di O’Halloran, Lumiere sembra un viaggio tragico nelle pieghe del tempo, un monolite cinereo che si muove nel solco imponente dei volumi orchestrali, pesanti e invisibili allo stesso tempo, ideati da Arvo Part per la sua personale visione del sacro; O’Halloran spezza quell’incedere modale evocando una concezione del suono spettrale, è il rumore della natura che sottende tutto A great Divide, o il Sabel senza trattamento, puro e strappato al suo passato, cosi come il riverbero naturale del Boesendorfer registrato nella chiesa di Grunewald che si manifestano in tracce come la splendida We Move Lightly, già prestata al cinema per Like Crazy di Drake Doremus, Opus 43, Fragile No. 4, forse tra tutti, il brano che ricorda l’archeologia postmoderna dei Devics. Lumiere, semplicemente, come negli spazi vissuti nelle interferenze sonore di Alvin Curran, è un piccolo grande album narrativo composto da un vero e proprio “music maker”, che al peso ottundente del racconto preferisce l’incertezza dell’immagine.