Il precedente album dell’artista californiano (A Sufi and a Killer, 2010) aveva entusiasmato la redazione di Pitchfork, facendo quasi gridare al miracolo: rap sperimentale, elettronico e malato. Dopo un paio di EP è tornato nel Gennaio 2012, sempre pubblicato da WARP (etichetta inglese di elettronica all’avanguardia), in combutta con il compagno di sempre Psychipop, con un mini-album della durata di 25 intensissimi minuti.
Un album nato dal dolore e dalla sofferenza che tratta di colpa, di morte e della ricerca di amore. Durante il quale le dolci seconde voci di April (la moglie del titolare) in ‘Feedin’ Birds’, ‘Skin’ e ‘Blacksuite’ si pongono come contraltare alla depressione dilagante delle due tracce. Dove il basso di ‘Venom’ cresce e palpita e il suo incedere percussivo genera vaghe idee di speranza, spente definitivamente dal ritorno di fiamma Rap di ‘The Blame’ che ci scaraventa nuovamente nei bassifondi dell’anima che frequentiamo quotidianamente. Anche quando il disco prova a schiacciare l’occhio al pop in ‘Nickels and Dimes’ l’allegria viene subito coperta da un manto di cenere.
Il rapper di San Diego consegna al suo pubblico un opera più fruibile e meno cervellotica rinunciando all’eccessiva sperimentazione forgiando però delle atmosfere più oscure, più rarefatte, più mistiche e dannate di quanto ci aveva abituato in precedenza. La cassa storta diventa la colonna portante di tutto il disco, dopo che le poche ancore hip hop sono state tutte levate. I campioni downtempo e il soul straziante dei vari pezzzi si unisce alla psichedelia tipica della costa californiana, arrivando a produrre un rumore bianco che ci trasporta in un solitario viaggio attraverso i pensieri più intimi delle ore più nere di Gonjasufi.