Di certo c’è che gli acidi a volte aiutano, e come! Più orientato alla meditazione che non all’ascolto vero e proprio, in a dark tongue di Harvestman è materiale unico nel suo genere. Capolavori strumentali abili a giocare con la psichedelia per dare adito a tutta la sensibilità umana di sentirsi ora viva, ancora morta o comunque semorente. Arie, a volte lancinanti e mutevoli, sembrano materializzarsi in carne ed ossa in paesaggi dipinti dall’anima ed è tutto aldilà della forma canzone. Non esiste dunque soluzione di continuità con quanto già ascoltato da Steve Von Till a proposito, anche se questo suo solingo Harvestman che parte da un folk improbabile per approdare ai lidi dark-ambient, ne rappresenta la necessaria evoluzione, il prescritto miglioramento, l’ineludibile metamorfosi. Oltre l’algidità dei Culper Ring, meglio dell’anarchia metal dei Neurosis o dello sperimentalismo dei Tribes of Neurot, in questo secondo capitolo della saga, che segue a tre anni di distanza Lashing The Rye, Von Till si concentra sull’intimità compositiva senza alcun preconcetto come se volesse ridarci i suoni di una fiaba che narra di boschi incantati, maghi, folletti e draghi (si ascolti Headless staves of poets). L’intro World ash o l’impronunciabile Eibhli ghail chiuin ni chearbhail, sembrano incaricate di presentarci questo mondo “altro” predisponendo l’ascoltatore ad un disco fiume, scuro, che sa di tribalismo ed epicità, quasi un Haka Maori con chitarre e synth. Echi degli Earth in Carved in a haspen. La rapsodia degli Hawkwind nella titletrack o the Hawk of Achill. Ciò che c’è di buono nell’eclettismo degli Ulver in By Wind and Sun e Music of the Dark torrent. Oltre un’ora di delirio esilarante. Magniloquente.